Malefici e miracoli in Val Grosina
ESCURSIONI IN VAL GROSINA - GOOGLE MAP
Le
donne grosine non sono donne comuni. Hanno un tratto particolare,
nelle fattezze, nel modo di fare, nel carattere. Un tratto che mostra
una bellezza ed una fierezza non comuni.
Melchiorre Gioia, serissimo studioso e scienziato sociale di impronta illuministica, nel 1805 scrive: “Le forme greche degli uomini a Bormio, delle donne a Grosio e Grosotto fermano con ragione gli sguardi degli stranieri”. (“Discussione economica sul dipartimento del Lario”). Gli fanno eco, nel 1834, gli “Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio”: “Distinguesi non pertanto fra le altre di Valtellina la popolazione di Grossotto e di Grosio per vestire più proprio e per certa esattezza e pulizia degli indumenti e della persona nelle dònne combinata a certe forme marcate di corpo e bel colorito di salute. Portano esse un cappello alto di feltro con piccola ala simile a quello di cui fanno uso gli uomini che imprime alle fisionomie loro un aria disinvolta ed aperta non senza attrattive. Vestono una gonnella succinta con falda di panno rosso alla parte inferiore che lascia vedere gran parte delle gambe calzate egualmente di rosso e dona loro sveltezza e brio”. Completa il trittico questa lapidaria descrizione della Guida CAI del 1884: “Anche gli abitanti sono di tipo bello e robusto, e vi è tradizionale la riputazione di avvenenza del sesso femminile”.
La spiegazione di tutto ciò va ricercata nella loro origine,
se è vero quel che si racconta, cioè che essa sia orientale.
Molti artigiani grosini dovettero emigrare, nella seconda
metà del secolo XVII, a Venezia, probabilmente per il rapido incremento demografico successivo alle due terribili ondate di peste del 1630 e 1635. Pare che a Venezia operassero, nella seconda metà del seicento, duecento Grosini, i quali diedero,
nella Repubblica Serenissima, una tale dimostrazione della loro abilità
da acquistarsi ammirazione e riconoscenza, che si concretizzarono anche
in un insolito dono. Venezia, che da secoli commerciava con l’oriente,
vi acquistava anche schiave pregiate. Tali erano le donne che provenivano
dall’Armenia, celebri per la loro altera bellezza. Molte di queste
donne, per volontà dello stesso doge, vennero donate ai Grosini,
che le condussero all’altare.
Capitava, però, non di rado, che le spose che venivano ad abitare a Grosio lo facessero liberamente, su invito degli emigrati. A tal proposito è ancora viva la memoria di quel tale che, per convincere una bella donna di origini friulane a prenderlo come sposo ed a seguirlo nella lontana Valtellina, pensò bene di magnificarle il buon tenore di vita di cui avrebbe potuto godere grazie ad una bottega ben avviata di cui era titolare nel paese di Grosio. In realtà non aveva proprio nessuna bottega, ma, pensava, con quell'espediente la donna lo avrebbe seguito e poi difficilmente se ne sarebbe tornata indietro. In effetti, un po' per amore del marito, un po', forse, anche per amore della bella vita, quella lo seguì, su per le valli bresciane, e poi fino al passo del Mortirolo. Per tutto il viaggio, però, tempestò il promesso sposo con domande sulla ben avviata bottega, ed il nostro le parò come poteva, rimanendo un po' sul vago. Quando ormai, discesa quasi interamente la mulattiera che dal Mortirolo porta al fondovalle, e giunti in vista di Grosio, la donna gli domandò dove fosse la famosa bottega, l'uomo, ormai costretto a venire allo scoperto, e forse anche incoraggiato dalla vista del paese natale, additò una grotta che si apre vicino alla mulattiera ed esclamò, serafico: "Eccola lì, la bottega". La grotta è ancora lì, presso la strada che sale al Mortirolo, ed è ancora chiamata "Cròta de la Veneziana".
Forse proprio per le origini lontane le donne grosine sentirono e sentono
ancora un bisogno di radicamento alle tradizioni ed alla loro terra
particolarmente forte, radicamento evidente nel legame ai costumi tradizionali. Sono
donne dal temperamento deciso, tanto da suscitare qualche allarme maschile,
con le conseguenti reazioni. Ciò spiega, forse, il detto scherzoso
per cui a Grosio lavorano solo le donne. Ma spiega anche perché,
nell’immaginario dei Grosini, la figura femminile appaia segnata
da una sorta di ambivalenza, almeno stando ad alcune storie e leggende
che hanno protagoniste femminili, fortemente caratterizzate, nel bene
e nel male. Ne proponiamo due.
La prima storia ha come protagonista la donna per eccellenza, cioè
la Madonna, che riassume in sé tutte le virtù positive
della donna, vale a dire la misericordia, l’attenzione, la dolcezza.
Quasi un secolo dopo l’arrivo delle donne armene in quel di Grosio,
l’economia, legata all’allevamento, si era ripresa, tanto
che, nei pascoli della Val Grosina, lavoravano pastorelli che venivano
da altre zone. Uno di questi, un ragazzo bergamasco, venne sorpreso,
nell’estate del 1750, da un violentissimo temporale all’alpe
di Malghera, nel cuore della Val Grosina Occidentale, all’imbocco
della Val di Sacco.
D’improvviso, come talora accade nei pomeriggi più afosi,
il cielo si era chiuso, una densa nebbia era calata ad avvolgere ogni
cosa, preludio ai primi minacciosi bagliori ed ai tuoni che sembrano
scuotere anche le rocce. Il pastorello, sorpreso dal maltempo, era stato
preso dal panico: aveva perso l’orientamento, non sapeva dove
rifugiarsi, tremava
per il freddo e per la paura: il torrente che scende dalla Val di Sacco
sembrava ingrossarsi a dismisura e minacciava di travolgerlo. Vide una
roccia, pensò che forse avrebbe trovato un anfratto per rifugiarsi,
ma quel che trovò fu un rifugio ben più sicuro. Una luce,
non luce di folgore, una figura di donna, mai vista, ornata di splendide
vesti: gli apparve la Madonna, che lo rassicurò, garantendogli
la sua protezione, come madre misericordiosa che non abbandona i suoi
figli nel pericolo. La vide proprio di fronte a lui, a pochi metri di
distanza, su quella roccia ricoperta dal muschio. E quando, di lì
a poco, la tempesta si placò, con le nebbie incombenti svanì
anche quella miracolosa visione. Ma lasciò la sua impronta impressa
sulla roccia. Quando il pastorello corse a raccontare agli alpeggiatori
la prodigiosa apparizione, tutti furono presi da commozione, interpretarono
il miracolo come segno di particolare predilezione della Madonna per
gli uomini che lavoravano in quell’alpe.
Una predilezione che si manifestò subito: una terribile epidemia
di colera, che stava decimando il bestiame, improvvisamente e miracolosamente
cessò. Iniziò, invece, il culto per la Madonna della Misericordia,
invocata come protettrice dell’alpe. Passarono diversi decenni,
ed una prova ben più severa interessò la comunità
di Malghera. La
corona di montagne non la protesse da un’epidemia di colera, che
si diffuse fin lassù dal fondovalle. Ma anche in questo caso
l’epidemia si arrestò, tanto rapidamente quanto si era
manifestata, ed anche questo evento fu interpretato come un miracolo.
Gli abitanti dell’alpe decisero, allora, di esprimere la loro
venerazione costruendo, nel 1836, una cappella; i loro nipoti pensarono,
poi, che l’apparizione dovesse essere ricordata nel modo più
bello, costruendo una chiesa che non avesse nulla da invidiare agli
edifici sacri che si potevano ammirare nel fondovalle.
Nacque, così, la chiesa della “Madona de la val de Sach”,
o Madonna della Misericordia (o delle Misericordie), iniziata nel 1888
e completata nel 1919. La chiesa, a 1958 metri, venne ben presto denominata
anche Madonna del Muschio, e la sua fama si diffuse, raggiungendo Como.
Il vescovo di Como, mos. Alessandro Macchi, elevò, nel 1940,
la chiesa a santuario. Un santuario che colpisce, per la sua bellezza,
ad una quota nella quale si trovano, di solito, solo chiesetta di più
modeste proporzioni.
Dal sacro al profano, dal racconto di un miracolo ad una leggenda sempre
ambientata a Malghera, seguendo il filo rosso dell’immagine femminile
nella Val Grosina. Si tratta della leggenda della “maga del Crap”.
La racconta Alfredo Martinelli ne "L'erba della memoria" (Bissoni,
1964, pp. 31-37) e ne sono protagoniste due donne, Giulia, modesta
e virtuosa ragazza grosina, promessa sposa al pastore Beppe, ed una
misteriosissima ed avvenente ragazza, che gli apparve, un giorno, su
una roccia, un crap, appunto, presso l’alpe di Malghera. Ma andiamo
con ordine.
Beppe era un giovanotto con la testa a posto, fidanzato con la buona
Giulia. Sua madre lo aveva cresciuto con sani principi, e, finché
era rimasta in vita, gli aveva raccomandato di pregare con devozione
la Madonna, recitando il rosario, soprattutto nella festa della Madonna
del Mischio, che si celebrava la prima domenica di agosto. E proprio
agli inizi del mese di agosto accaddero gli eventi narrati dalla leggenda.
Beppe, conducendo al pascolo le sue capre, durante un assolato pomeriggio,
vide splendere qualcosa in alto, sulla cime di un crap. Fu preso dalla
curiosità: forse era una pietra preziosa, forse era dell’oro.
Con qualche passo di arrampicata si avvicinò alla sommità
del crap. Non vide né pietre, né gioielli, ma una splendida
ragazza, che gli sorrideva amabilmente.
Rimase stupito, quasi impaurito, ridiscese al limite dei pascoli, guardò
ancora in alto: più niente. Per il restò della giornata
rimuginò sull’accaduto. Del resto nelle lunghe giornate
d’estate la noia regna sovrana nell’alpeggio, ed uno ha
tutto il tempo che vuole per pensare, anche troppo. Nel suo cuore alla
paura subentrò, pian piano, un sentimento strano. Certo che la
ragazza era bellissima. E cosa voleva dire quello sguardo? Non sarebbe
stato meglio rimanere? Che so, per fare due parole. Almeno per chiedere
il suo nome. Anche
solo per buona educazione: non sta bene andarsene via, così.
Ma no, forse era meglio lasciar stare. Cosa avrebbe pensato Giulia di
un’amena conversazione con quella sconosciuta? Combattuto fra
questi pensieri, passò l’intera notte.
Venne la mattina, la mattina del sabato che precedeva la festa della
Madonna del Muschio. Beppe si alzò ancor prima del solito. Alla
fine le sue gambe decisero per lui. Sul far del giorno fu ai piedi del
crap. Ma della ragazza, neppure l’ombra. Salì, il sole,
nel cielo, scaldò l’alpeggio per tutta la lunga mattinata,
e venne mezzogiorno, e venne pomeriggio: Beppe se ne stava ancora lì,
tenace, come il calone che ti attanaglia nelle interminabili giornate
estive. Ed alla fine la sua tenacia fu premiata.
Nell’ora più calda del giorno, ecco di nuovo il bagliore.
Beppe salì, rapido, fra le roccette, e di nuovo fu in cima al
crap. Di nuovo vide la ragazza, che gli parve ancora più bella.
Non riusciva a respirare per l’emozione. Avrebbe voluto dire mille
cose, ma dalla bocca non uscì alcuna parola. Fu lei, invece,
a parlare, con una voce dolcissima, scadenza, quale non aveva mai sentito
prima. “Seguimi”, gli disse, e prese a salire, sul crinale
del monte. Beppe non se lo fece dire due volte. Del resto, da buon pastore,
era abituato al terreno impervio dei crinali: quante volte aveva dovuto
affrontare passi rischiosi per recuperare le capre “incrapelate”,
cioè intrappolate fra le rocce. Ma nella sua testa le capre,
in quel momento, non c’erano proprio. C’era
solo una gran confusione, una grande emozione.
Così, quando alzò gli occhi, e passò un po’
di tempo prima che osasse farlo, per incrociare ancora quello sguardo
dolcissimo, fu come una doccia fredda quel che vide: la ragazza non
aveva piedi, ma zampe di capra. Si bloccò di colpo, capì,
rabbrividì: non si trattava di un’angelica fanciulla, ma
di una maga, una maliarda, una strega. Esseri di quel genere, quante
volte glie l’avevano raccontato, si nascondono dietro le fattezze
più leggiadre. Le gambe gli tremavano tanto da rendergli impossibile
la discesa. Era terrorizzato: se la maga si fosse accorda che l’aveva
scoperta, avrebbe sicuramente deposto l’apparenza fallace, avrebbe
mostrato il suo volto repellente, chissà quale stregoneria gli
avrebbe scagliato contro. Non sapendo che fare, implorò, in lacrime,
la madre, perché, dall’aldilà, lo proteggesse.
Come nel più bizzarro dei sogni, ecco che, d'improvviso, dal
crinale del monte si ritrovò nella sua camera, steso sul letto.
Era il tramonto. La madre stava, con il suo sguardo severo e dolce insieme,
accanto al suo letto. La vide, udì le sue parole: “Recita
il rosario, Beppe, recita il rosario, il rosario per la Madonna della
Misericordia”. Non vide altro, non udì altre parole. Prese
la corona fra le mani e cominciò a recitare le avemarie, arrossendo
per la vergogna: come aveva potuto essere così stolto? Come aveva
potuto mancare di rispetto alla sua Giulia? Il sonno lo sorprese con
le dita serrate attorno ai grani della corona.
Venne, infine, anche la domenica. Con la domenica, venne una gran folla
da Grosio, per la festa della Madonna della Val di Sacco. E venne anche
Giulia, che gli sorrise, di lontano. La vide, ed a quel sorriso il dolore
per il rimorso parve scomparire. La prese sotto braccio ed insieme si
recarono alla messa. Questa è la storia di Beppe, della sua Giulia
e della misteriosa maga del Crap che, dicono, non abbia cessato di comparire
negli assolati pomeriggi estivi per irretire qualche altro pastore,
confidando nella stoltezza e nella noia, che, da sempre, arrecano i
più grandi danni agli uomini.
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