Cinque giorni fra le valli del Bitto di Gerola ed Albaredo - 2: Dal rifugio Casera di Stavello al rifugio Trona Soliva
Nel Notiziario n. 79 della Banca Popolare di Sondrio (aprile 1999) Antonio Boscacci, indimenticato documentarista, alpinista, sassista e divulgatore appassionato di cose di montagna, proponeva un’Alta Via del Bitto, itinerario in quattro giornate da Rasura, in Val Gerola, ad Albaredo, in Valle del Bitto di Albaredo. Quattro giornate per conoscere a fondo i luoghi storici del celeberrimo prodotto caseario, gustarne colori, scenari, suggestioni. In quell’articolo scriveva: “L’alta via del Bitto è un bellissimo itinerario per il quale si devono prevedere quattro giorni di cammino. E’ un percorso assolutamente splendido che si svolge intorno ai 1800 metri senza grandi dislivelli, né in salita, né in discesa.”
A che scopo tracciare e promuovere una tale alta via? Ovviamente offrire un’ulteriore possibilità agli amanti delle lunghe escursioni, ma anche rendere omaggio al Bitto ed insieme alla civiltà contadina di cui questo formaggio è espressione: “Tra i formaggi prodotti in Valtellina, il Bitto è sicuramente quello più conosciuto. Questo da sempre. … Il Bitto (ma forse si dovrebbe dire i Bitti), torrente che percorre queste valli, è all’origine del nome del formaggio. Il formaggio delle Valli del Bitto, diventa formaggio Bitto. … Proprio per conoscere il Bitto da vicino, abbiamo deciso di compiere un lungo ed interessante itinerario che, partendo dall’imbocco della Valle del Bitto di Gerola … andasse a terminare ad Albaredo, cuore e motore della valle omonima. Così andando, per valli, vallecole, monti ed alpeggi, scavalcando rigagnoli, ruscelli o torrenti, abbiamo incontrato un sacco di cose meravigliose e sorprendenti. Abbiamo visitato luoghi impensabili, visto angoli incancellabili, ammirato paesaggi indescrivibili … Ma soprattutto abbiamo camminato seguendo le tracce dell’uomo. A volte semplici da seguire. A volte impossibili. A volte assurde, per la nostra mentalità di uomini pigri, sconclusionati e un po’ rimbecilliti. … Abbiamo toccato quasi tutti gli alpeggi di queste due grandi valli. Quando si pensa agli alpeggi in generale non ci si immagina quanti siano. Non ci si rende ben conto che in ogni vallecola, anche la più sperduta e irraggiungibile, c’era chi riusciva a portare qualche capo di bestiame, a strappare i pochi ciuffi d’erba che, sparsi tra i sassi, quella valle era in grado di offrire.”
A quasi vent’anni di distanza può essere significativo riproporre l’idea di questa alta via, raccontandola con i necessari aggiornamenti ed aggiungendo una quinta giornata per quanti non amano dover collocare due automobili in luoghi diversi e vogliono tornare alla fine esattamente al punto di partenza, in questo caso Rasura. Ecco, dunque, il racconto delle cinque tappe, che riprende alcune annotazioni di Antonio Boscacci ed aggiunge indicazioni storiche ed escursionistiche. Un omaggio dovuto. Dovuto alla memoria di Antonio Boscacci, dovuto a queste straordinarie valli, che non mancano mai di regalare soddisfazioni a quanti amano consumare le proprie scarpe da trekking. 2. DAL RIFUGIO ALPE STAVELLO AL RIFUGIO TRONA SOLIVA
La seconda giornata dell'alta via del Bitto inizia dal rifugio Alpe Stavello.
Cos' la descrive Antonio Boscacci, nell'articolo citato: "Per superare la fascia rocciosa sulla Val di Pai si scende lungo una impossibile mulattiera che da sola vale una salita fin qui. E' un'opera scavata nella roccia e sostenuta da robusti muri a secco che meriterebbe di essere tutelata come monumento di grande importanza". Vale la pena di aggiungere: fra i manufatti dell'uomo, sentieri e mulattiere meriterebbero una tutela e, oserei dire, una venerazione particolare, per gli innumerevoli passi che hanno agevolato, per l'espressione di una vera e propria filosofia del rapporto uomo-natura, perché ci insegnano quando poco si debba sottrarre alla natura per poter rendere sicuro il passo. Eppure sono i primi ad essere fatti fuori quando si tratta di inervenire tracciando piste e tratturi.
Lasciata alle spalle la mulattiera nella roccia, scendiamo a luoghi più tranquilli,
incontrando subito una deviazione a sinistra (segnalata su un masso; attenzione a non proseguire diritti su invitante sentiero), che ci fa scendere verso
il solco della valle, passando fra imponenti larici (località Carunèla). Sono luoghi di grande bellezza, fra i più
suggestivi della val Gerola.
Passati sull’altro lato della
valle (il destro), non seguiamo un sentiero che prende a sinistra, in piano, seguendo la riva del torrente della Val di Pai, ma il sentierino che se ne allontana salendo su un versante segnato da una slavina (segnavia bianco-rossi), portandosi con qualche tornantino ad intercettare un più marcato sentiero, che seguiamo verso sinistra. Procedendo in piano o con qualche saliscendi, tagliamo un versante un po' umido (attenzione ai sassi scivolosi), in un bel bosco di abeti
e, lasciato il torrente sempre più in basso, scendiamo ad intercettare
una pista sterrata sopra la località di San Giovanni, a 1460 metri circa. Dirigiamoci a sinistra: la pista scende per un tratto,
proponendo pochi tornanti, poi passa per un ampio slargo-parcheggio ed infine intercetta una più larga strada sterrata che sale da Gerola
e Castello a Laveggiòlo. La seguiamo andando a destra e salendo per breve tratto fino a Laveggiòlo (“lavegiöl”, m. 1470), dove troviamo un parcheggio ed un pannello illustrativo.
L’antico nucleo è citato già in un documento del 1321, dove risulta costituito da tre nuclei famigliari, tutti Ruffoni, che discendono da un unico capostipite, tal ser Ugone. È collocato su una fascia di prati assai panoramica (il colpo d’occhio sul gruppo del Masino e sulla testata della Val Gerola è davvero suggestivo), nella parte mediana del lungo dosso che scende verso est dalla cima del monte Colombana (“ul pizzöl”, m. 2385). Il suo nome deriva, probabilmente, da "lavegg", la nota pietra grigia molto utilizzata in Valtellina per ricavarne piatti ed altri utensili. Da Laveggiolo alla pista per il rifugio Trona Soliva, sulla base di Google Earth (fair use) Lo imbocchiamo e, dopo una breve e poco marcata discesa, procediamo quasi in piano, superando alcune baite; ad un bivio, presso una fontanella ed un casello del latte, ignoriamo la traccia meno marcata che sale verso destra (indicazione “Vedrano” su un masso), procedendo diritti. Superati in rapida successione due modesti corsi d’acqua, usciamo dal bosco e superiamo un torrentello, per poi scendere leggermente fino al ponticello di travi in legno che ci permette di superare il torrente Vedrano (m. 1541).
Sul lato opposto della valle troviamo subito, a destra, un’amena radura, con un tavolo in legno e due panche per chi volesse sostare; un’indicazione su un masso (“Castello”) segnala che giunge fin qui anche un sentiero che parte più in basso, dalla località Castello. Il sentiero, che qui diventa larga mulattiera, prende a salire sul fianco boscoso della valle, ingentilito da luminosi larici e, dopo un traverso a sinistra, propone una sequenza di tornanti dx, sx, e dx, prima di intercettare, a quota 1595, la medesima pista sterrata che abbiamo lasciato poco dopo Laveggiolo. Se preferiamo una traversata tranquilla possiamo seguire interamente la pista che propone alcuni tornanti e si affaccia all'ampio bacino dell'alta Valle della Pietra, conducendo diritta, con qualche saliscendi, al rifugio Trona Soliva, oppure cercare alcune ripartenze della storica mulattiera e percorrerne i tratti rimasti.
Seguendo il sentiero, che corre un po' più basso rispetto alla pista, dopo un tornante a destra ed il successivo a sinistra, percorriamo un lungo traverso, superando un primo traliccio, un torrentello ed un secondo traliccio (si tratta della linea ad alta tensione che scavalca il crinale orobico in corrispondenza della bocchetta di Trona), presso una radura. Passiamo, poi, accanto alla baita isolata quotata 1725 metri. Una sosta ed uno sguardo alle nostre spalle ci permette di ammirare l’ottimo colpo d’occhio sulle cime del gruppo del Masino, dal pizzo Cengalo al monte Disgrazia.
Dopo il successivo tornante a destra, troviamo, sulla sinistra, il cartello che segnala la ripartenza della mulattiera che abbiamo lasciamo un bel tratto sotto. Saliamo per un tratto verso sinistra, poi affrontiamo una sequenza di tornanti dx-sx-dx-sx ed usciamo dalla macchia di larici, attraversando una piccola radura fino ad una roccia affiorante, per poi volgere di nuovo a destra. Dopo un ultimo tornante a sinistra, raggiungiamo una radura con un tavolo in legno e due panche: siamo alla “furscèla” (m. 1888), cioè alla forcella, piccola bocchetta sul crinale che dal Piazzo (“piz di piàz”, m. 2269) scende verso est.
Ci affacciamo, così, sulla soglia settentrionale dell’ampio bacino dell’alpe di Trona e si apre davanti a noi l’intera testata della Val Gerola, che mostra, da est (sinistra), il monte Verrobbio (m. 2139), il pizzo della Nebbia (“piz de la piana”, m. 2243), i pizzi di Ponteranica (“piz de li férèri” o “piz ponterànica”, orientale, m. 2378, meridionale, m. 2372, occidentale, m. 2372), l’agile spuntone del monte Valletto (“ul valèt” o “ul pizzàl”, m. 2371), la compatta compagine della Rocca di Pescegallo (o Denti della Vecchia, “ul filùn de la ròca” o “denc’ de la végia”, cinque torrioni il più alto dei quali è quotato m. 2125 e che vengono visti come un unico torrione da Gerola, chiamato anche “piz de la matìna” perché il sole vi sosta, appunto, la mattina), i pizzi di Mezzaluna (“li mezzalüni”, vale a dire il pizzo di Mezzaluna, m. 2333, la Cima di Mezzo ed il caratteristico ed inconfondibile uncino del torrione di Mezzaluna, m. 2247), il pizzo di Tronella (“pìich”, m. 2311), il regolare ed imponente cono del pizzo di Trona (“piz di vèspui”, m. 2510) ed infine il più famoso ma non evidente, per il suo profilo tondeggiante e poco pronunciato, pizzo dei Tre Signori (“piz di tri ségnùr”, m. 2554, chiamato così perché punto d’incontro dei confini delle signorie delle Tre Leghe in Valtellina, degli Spagnoli nel milanese e dei Veneziani nella bergamasca).
Dopo qualche saliscendi, saliamo ad intercettare la pista sterrata che prosegue fino al rifugio (possiamo seguirla senza mai lasciarla da Laveggiolo), a monte del quale si trova un frangi-valanghe in cemento, su cui è scritto “Rifugio di Trona 10 min.” Pochi metri più avanti, infatti, dopo una semicurva ci appare la struttura del rifugio: ci vien da pensare che 10 minuti è stima ottimistica, e ci vorrà almeno un quarto d’ora.
Siamo prossimi ad un valico di interesse storico primario, la bocchetta di Trona, raggiunta da un sentiero che parte dal rifugio, si dirge a sud e, aggirato un dosso, piega a destra, risale un vallone e si porta al valico, che si affaccia sull'alta Val Varrone. Un approfondimento storico, quindi, si impone.
Non è azzardato affermare che la bocchetta di Trona ("buchéta de Truna") è, dal punto di vista storico, il più importante fra i numerosi valichi che collegano i due versanti della lunga catena orobica. Tale importanza ha radici antichissime: di qui, infatti, passa quella via del Bitto che è stata, per molti secoli, la via di comunicazione terrestre più diretta e breve fra la Valtellina ed il basso Lario, il che vuol dire, poi, con Milano. Il suo primato cominciò ad essere intaccato solo in epoca medievale, con la costruzione di una strada sulla riva orientale del Lario, poi ampliata nel secolo XIX.
Ma al tempo dei Romani questi temevano una calata dei barbari proprio
da qui (e fortificarono diversi luoghi strategici della Valsassina),
ed è a loro che risale la definizione di questo asse come “via
gentium”, cioè via delle genti. Parrebbe strano, visto
che si dipana nel cuore delle Orobie occidentali, fra Valsassina (o,
più precisamente fra Val Troggia, Val Biandino ed alta Val Varrone)
e Val Gerola, eppure è così.
Per la Via del Bitto, da Introbio, in Valsassina, a Morbegno passarono, nei secoli genti, mercanti ed eserciti. Fin dal primo apparire dei popoli che, salendo da sud, colonizzarono per primi questo questo lembo della catena orobica. Sembra che i primi siamo stati i Liguri, seguiti dai Celti e dagli Etruschi. Vennero, quindi, i Romani, ai tempi dell’imperatore Augusto. E, dopo di loro, venne la religione cristiana, predicata da S. Ermagora. Dopo la caduta dell’impero romano vennero i Goti, e dopo di loro i Longobardi, sconfitti dai Franchi: tutti passarono dalle valli orobiche, ed il valico della bocchetta di Trona era, fra tutti, il più praticato.
All’inizio del Quattrocento salirono dalla Val Varrone alla bocchetta di Trona truppe al soldo dei Rusconi di Como, ghibellini, per dar man forte alla loro fazione, prevalente a Morbegno e sulla sponda orobica della bassa Valtellina, contro la fazione guelfa, che prevaleva a Traona e sul versante retico: la loro calata in valle, però, venne bloccata dalla coalizione avversa, salita in Val Gerola. Nel 1431 fu la volta dei Veneziani, che, uniti ad un contingente di Valsassinesi, varcarono la bocchetta per scendere a conquistare la bassa Valtellina, possesso dei Visconti di Milano: furono però disastrosamente sconfitti nella sanguinosa battaglia di Delebio l’anno successivo, nel 1432. Passarono di qui, il secolo successivo, nel 1515, i mercenari svizzeri in rotta dopo la sconfitta subita nella battaglia di Melegnano da parte dei Francesi: scesi in bassa Valtellina, molti di loro riuscirono a riparare nella natia Svizzera.
È l’ultimo transito significativo di armati, prima del secolo XX, quando, durante la seconda guerra mondiale, nell’ottobre del 1944, le forze nazifasciste organizzano un rastrellamento in grande stile che interessa la Valsassina. Gli elementi della brigata partigiana 55sima Rosselli, per sfuggire all’accerchiamento, decisero di ripiegare in Svizzera, lasciando solo alcune unità sul territorio della valle orobica, nell’intento di non perdere il contatto con la popolazione locale. Il grosso della brigata salì, quindi, in Val Troggia e, valicata la bocchetta di Trona, scese in Val Gerola, di cui attraversò l’intero fianco occidentale, passando per gli alpeggi di alta quota, al fine di evitare il presidio di SS italiane che stazionava a Pedesina. Dalla Corte scese, quindi, sul fondovalle, varcando, in punti diversi, con il favore delle tenebre, il fiume Adda, il 3 novembre. Gran parte degli elementi, risalito il versante orientale della Costiera dei Cech, si ritrovarono alla piana di Poira, sopra Civo, già sede, per alcuni mesi, del comando della 40sima Matteotti. Di qui traversarono alla Val dei Ratti ed alla Val Codera, riuscendo (non senza vittime) a passare in territorio elvetico per la bocchetta della Teggiola.
Alla bocchetta di Trona giungeva anche una seconda importante strada storica, denominata "la Strada del Ferro" o "di Maria Teresa". A differenza della Via del Bitto, questa via saliva non dalla Valsassina, ma dalla Val Varrone, più ad ovest. Partiva infatti dalla frazione Giabi di Premana e risaliva tutta la Val Varrone. Venne tracciata molti secoli fa per trasportare a valle il minerale di ferro estratto nel bacino dell'alta Val Varrone. Guardando dalla bocchetta verso la Val Varrone, poco in basso, a sinistra, si vede ancora un baitello presso le ex miniere di ferro.
Questo spiega la presenza su un dosso a monte della bocchetta di un fortino militare (ancora in piedi) fatto costruire nel 1917. E' l'unico ad essere rimasto in piedi nell'intero complesso di fortificazioni della linea Cadorna che correva sul crinale orobico. Dentro la struttura è stata collocata anche una lapide che ricorda Giovanni Galbiati, perito nella scalata al pizzo di Trona il 17 agosto del 1927. Proprio sulla bocchetta, invece, si trova il rudere della struttura edificata nel 1924, Casa Pio XI,
rifugio-colonia estiva della Federazioni Oratori Milanesi, che fu poi
incendiata dai nazifascisti il 21 marzo 1944, per togliere ai partigiani
un punto di appoggio.
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