Il circo terminale della Val di Togno: leggende, storia, natura, traversate
La Val di Togno (val de tugn, nel dialetto di Albosaggia, val de tógn, in quello di Montagna; il nome deriva dalla famiglia dei Togn), fra tutte le valli del versante retico mediovaltellinese, è quella che maggiormente si avvicina all’archetipo della valle nascosta, solitaria, ombrosa ed un po’ sinistra, ancora oggi (o forse, dato il parziale abbandono degli alpeggiatori, oggi più di ieri) regno di cervi, camosci, marmotte ed aquile reali. Per la verità nel suo ripiano terminale, l’amena Val Painale (el painà, o painàl), oltre la soglia dei 2000 metri, la valle di allarga e si apre in un circo luminoso, coronato da un’armonica e suggestiva sequenza di cime tanto poco conosciute quanto eleganti nella loro austera bellezza. Ma per approdare a questo angolo di splendore alpestre bisogna risalire una valle stretta ed incassata, assediata da versanti severi e quasi scostanti, niente a che vedere con la vicina e ben più famosa ed aperta Valmalenco, la con valle che da sempre le ruba la scena e ne offusca la notorietà.
Esiste, peraltro, un ristretto club di estimatori o addirittura innamorati di questa valle. Fra questi, sicuramente l’alpinista e naturalista Bruno Galli Valerio, fra i primi ad esplorare le cime del gruppo Scalino-Painale. Ecco cosa annota in data 12 agosto 1903: “…risalendo la valle dell’Antognasco (Val di Togno), le idee nere se ne vanno. È una valle che mi è cara, forse perché vi ho passato alcuni giorni felici, perché vi ho sempre trovato l’ospitalità la più cordiale, perché il suo sfondo è uno dei più artistici ch’io mi conosca. Le vacche scendono giù dall’alpe Painale. – C’è poca erba, mi dicono i pastori, e le vacche son troppe -.
Risalendo di fianco alla bella cascata, tocco le rive del lago Painale alle nove e venti del mattino. Mi sdraio in riva alle acque verdi e limpide, e ammiro ancora una volta, senza saziarmi, le belle cime che fanno corona alla valle: la piramide dello Scalino, il Painale, la Vicima, il Pizzo di Gombaro, le pareti nere della Vetta di Ron. C’è un gran silenzio intorno a me. Anche le marmotte stanno zitte. E penso alle belle ascensioni fatte a queste cime, ai bei giorni passati sotto la tenda, al camoscio mancato nella nebbia sotto il passo di Gombaro, al povero orsacchiotto uscito non si sa da dove e ucciso a colpi di pietre e che, secondo il fortunato cacciatore, faceva tremare i macigni col suo ruggito, benché fosse grande quanto un cane.” (da B. Galli Valerio, “Punte e passi”, a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).
La valle si configura come tipica valle chiusa, nel senso i valichi che permettono di transitare in Valmalenco ed in Val Forame (Val Fontana) si trovano in cima alla Val Painale e sono poco agevoli. La sua economia è quindi sempre stata legata all'allevamento, con la produzione di "mascarpin" (ricotte affuminate), e "furmasin", ed alla coltivazione e raccolta di castagne, noci, ortaggi e cereali.
Sarà perché soffre di un complesso di inferiorità per il fascino della sorellastra maggiore, con la quale si unisce nel tratto terminale, ad Arquino, poco a monte di Sondrio, là dove l’Antognasco unisce le sue acque a quelle del più illustre Mallero, sarà perché ogni valle ha un suo destino, fatto sta che l'immagine della valle è legata a diverse leggende sbalzate, quasi, da un fondo oscuro: da sempre ricetto di streghe della peggior specie, ospiterebbe anche il raccapricciante spettacolo delle anime dannate dei sondriesi golosi e gaudenti, condannati, nelle notti di plenilunio, per una triste pena del contrappasso, a cibarsi famelicamente dei magri pascoli della media valle (una diversa versione vuole che “verso la metà di agosto di ogni anno si diano convegno le anime dei ricchi sondriesi per intrecciarvi ridde diaboliche, volar per l’aria su tronchi d’alberi, rotolar macigni e frantumarli con enormi mazze, e far altre follie consimili” – Guida alla Valtellina del CAI di Sondrio, 1884).
Di più, risuonerebbe fra i suoi ripidi versanti, di tanto in tanto, un suono potente e cupo, che non ha eguali fra quelli uditi da orecchio umano, la probabile voce di un gigante smisurato, che, peraltro, nessuno ha mai effettivamente visto. Un’ultima leggenda racconta che su una delle sue cime più scoscese ed inaccessibili, sarebbe stato portato, dal diavolo, un tal Michelozzo, signore di Grosio, che si vantava di essere invincibile e capace si sormontare qualsiasi problema o pericolo. Confinato in quell’orizzonte di solitudine così inconsueto, dove si sentiva nulla più che un povero ometto, egli dovette ricredersi ed imparare dal profondo smarrimento che lo prese il significato dell’umiltà. San Michele arcangelo ebbe, quindi, compassione di lui e lo ricondusse a casa su un tappeto di rose. Per questo da allora, in ricordo della presunzione umiliata, la rupe della Val di Togno fu chiamata Ometto. Così, almeno, si dice.
Il toponimo “Painale” si riferisce all’alpe, alla valle ed alla cima sulla testata della Val di Togno, potrebbe derivare da “pàia”, paglia, oppure dalla famiglia dei “Paìna” o “Paìni”). Le più sicure cronache della storia narrano, invece, di una valle che, pur essendo quasi interamente compresa entro i confini del comune di Montagna (solo la sua porzione sud-occidentale, ad ovest dell’Antognasco ed a sua della vallone della Foppa, è nel comune di Spriana), è fortemente legata ad Albosaggia, comune di origine dei pastori che da secoli caricano l’ampia alpe Painale. Il singolare fatto si riconduce, secondo quanto vuole un racconto, ad una donna di Montagna che, nei secoli scorsi, fu perpetua del parroco di Albosaggia, ma si trovò anche ad ereditare il diritto di proprietà su tali pascoli.
Si trovò tanto bene nel paese orobico da decidere di donare, in punto di morte, a questa comunità i diritti di pascolo. Prestando fede, invece, a quel che risulta dalla documentazione storica, apprendiamo che i pascoli della Val Painale furono acquistati, nel 1590, per l’ingente somma di 26.096 lire, dal comune di Albosaggia, per far fronte all’incremento demografico che, sul finire del XVI secolo (350 fuochi vi contò il vescovo di Como Feliciano Ninguarda, nella visita pastorale del 1589), rese insufficienti i pascoli orobici alle esigenze della comunità.
Da allora sono trascorsi più di quattro secoli, ma l’alpe viene ancora caricata da pastori “busàcc”, che vi conducono le mucche con un percorso di oltre 15 km, che prevede anche l’attraversamento di Sondrio. Non si raggiungono più le cifre di 330 vacche, 150 manzette e 100 vitelli, registrate a metà del secolo scorso, ma vi si possono ancora contare circa 140 capi, caricati da un privato di Albosaggia. Sempre nel secolo scorso, per alcuni decenni la valle assunse una certa notorietà perché era una delle direttrici praticate dagli “spalloni” che praticavano il contrabbando con la vicina Confederazione Elvetica: per questo venne edificata una caserma della Guardia di Finanza, chiusa, poi, nel 1960 (è stata successivamente, dal 1984, ristrutturata a rifugio, il Val di Togno), quando l’epoca ruggente del traffico illegale era ormai volta al tramonto.
Dal punto di vista dell'escursionismo, la Val Painale offre un interessante punto di appoggio, il rifugio De Dosso (rifügiu brùnu de dòs, m. 2119), che può servire, oltre che come base per un’ascensione al pizzo Scalino, anche per traversate alla Valmalenco (rifugio Cristina, per il passo degli Ometti), alla Val Forame in alta Val Fontana (rifugio Cederna-Maffina, per il passo del Forame) o alla Val Vicima, laterale della media Val Fontana (passo di Vicima). La salita al rifugio avviene, normalmente, seguendo l’unico sentiero di fondovalle, che dal rifugio di Val di Togno si affaccia all’alpe Painale. Esiste, peraltro, anche un sentiero alto, per escursionisti esperti, che effettua una lunga traversata dalla bocchetta del Torresello, sulla testata della Val Rogneda, alla Val Painale, per il passo del Gallo ed il Buco del Cacciatore. Affidiamoci, però, alla via più consueta ed agevole, raccontando, innanzitutto, come raggiungere il rifugio Val di Togno (m. 1317).
Le vie di accesso sono tre: da Spriana, per il sentiero che raggiunge Portola e si addentra tagliando il fianco occidentale della bassa Val di Togno, da Arquino, per la malagevole carrozzabile, chiusa al traffico dei veicoli non autorizzati, che termina ad un parcheggio nei pressi del rifugio, e dalla località Carnale, per un sentiero che taglia il fianco orientale della bassa Val di Togno. Tralasciata la prima possibilità, ecco il racconto delle rimanenti.
È possibile acquistare il permesso di transito sulla carrozzabile Arquino-Val di Togno sia presso il municipio di Spriana, che presso il bar di Ponchiera. L’opzione più comoda è questa seconda. Dalla piazza Garibaldi di Sondrio imbocchiamo la via che, fiancheggiato per un tratto il Mallero, volge a destra e sale verso castel Masegra e Moncucco, volgendo poi a sinistra (ottimo è, in questo tratto, il colpo d’occhio su Sondrio). Una semicurva a destra ci introduce, quindi, alla frazione di Ponchiera, a 2,3 km da piazza Garibaldi. Procedendo con cautela (la carreggiata è qui piuttosto stretta), cerchiamo, alla nostra sinistra, l’insegna di un negozio di alimentari del gruppo Sigma-Punto. Poco oltre, scendendo per brevissimo tratto a sinistra, possiamo trovare un parcheggio temporaneo per l’automobile. Tornati al negozio, entriamo nel vicino bar (sede di un famoso Inter Club), dove, per 5 Euro (tariffa 2008), possiamo acquistare il permesso di transito giornaliero sulla carrozzabile della Val di Togno. Risaliti in automobile, procediamo fino all’uscita da Ponchiera, sulla strada per Arquino. Ignorata la deviazione sulla sinistra che conduce alla centrale di Ponchiera, scendiamo leggermente, fino al cartello “Arquino – Frazione di Sondrio” (4,1 km da piazza Garibaldi), che precede l’ingresso al paese. Oltrepassiamo un parcheggio (dove, se siamo sprovvisti di permesso, ci conviene lasciare l’automobile), sulla nostra destra, ed un ponticello, giungendo alla località Caparè dove si trovano un lavatoio ed un bivio: la strada di sinistra scende al ponte sul Mallero e risale sul versante opposto fino a congiungersi con la provinciale della Valmalenco.
Oltre il ponte, una rapida sequenza di tornantini sx-dx-sx-dx-sx porta ad un bivio: prendendo a destra, ci portiamo proprio sotto il Rifugio Val di Togno (m. 1317), ricavato, come già detto, dalla dimessa caserma della Guardia di Finanza. Il punto è, infatti, strategico: qui convergono le tre direttrici di accesso alla valle da Spriana, Arquino e Carnale. I finanzieri ingaggiavano, quindi, in questa ombrosa valle un serrato duello contro i contrabbandieri che, con le loro bricolle di 25-30 kg, tornavano dalla Valle di Poschiavo, cercando di eluderne la sorveglianza. Il rifugio è posto in località Ca’ Baldini (Ca’ Baldìn), nel territorio del comune di Spriana, maggese che veniva monticato fino agli anni sessanta del secolo scorso da contadini delle frazioni di Spriana Mialli e Portola. Il maggese apparteneva, però, in passato alla quadra S. Giovanni di Montagna, ed infatti Baldini è il cognome di una famiglia originaria di S. Giovanni.
Raccontiamo, ora, come giungere fin qui da Carnale, maggengo panoramico posto a circa 1250 metri e raggiungibile facilmente da Montagna in Valtellina. Le baite sono poste su un dosso che guarda ad un lato alla Valmalenco, dove è visibile fra l’altro, sulla destra, il pizzo Malenco, dall’altro alla catena orobica, chiusa dalla piramide del monte Legnone. Lasciata l’automobile al parcheggio dove termina la strada asfaltata (qui si trova un pannello escursionistico con la carta dei sentieri nel comune di Montagna), saliamo lungo una carrozzabile con fondo sterrato ed in cemento, tagliando i prati inferiori del maggengo (i ciàna), fino a raggiungere le baite di Carnale, intercettando una carrozzabile che proviene da destra. Procedendo verso sinistra, superiamo le ultime baite (i masùn) ed incontriamo il punto nel quale parte la pista tagliafuoco, tracciata di recente, che piega a destra ed effettua una traversata fino a Stogegarda.
Nella discesa si passa sotto un cupo roccione verticale, che sembra incombere minaccioso sul capo. Superato il corpo franoso, il sentiero percorre un ultimo tratto nel bosco e passa nei pressi della località denominata Buco dell’Orso (böc de l’urs), perché qui, nel 1880, venne ucciso l’ultimo orso della Val di Togno. Fu una fine ingloriosa: il plantigrado venne, infatti, finito a colpi di triénza (tridente) da alcuni contadini. Pare, tuttavia, che la Val di Togno non sia stata una valle frequentata da orsi, stando a quanto racconta il già citato Bruno Galli Valerio, ovvero la storia dell’orsacchiotto della Val di Togno:” Da dove era venuto quell’orsacchiotto? Nessuno lo saprà mai. A memoria d’uomo, non si erano mai visti orsi nella Val di Togno e quello apparve tutto d’un tratto, miserabile vagabondo, in mezzo alle gande. Il brav’uomo l’aveva visto ed era corso a cercare un forcone. L’orsacchiotto, terrorizzato, si era nascosto sotto ad un sasso. L’orso grugniva a tal punto, diceva il povero diavolo, che il sasso tremava! Aspetta aspetta, l’orso si decise ad uscire ed allora il nostro uomo con una grossa pietra lo uccise. La povera bestia era talmente grossa che quando il nostro cacciatore la portò alla prefettura per ritirare il premio, non volevano darglielo perché dicevano che era Ursus formicarius. La grave questione ebbe fine quando un macellaio lo giudicò essere un vero orso, ma un orso giovane". (op. cit.) CARTA DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Apri qui la carta on-line
RIFUGIO VAL DI TOGNO-RIFUGIO DE DOSSO
Vediamo, dunque, come salire dal rifugio Val di Togno al rifugio Bruno De Dosso. Seguendo quest’ultima indicazione, passiamo fra le baite del piccolo nucleo, fino a raggiungere il primo segnavia bianco-rosso, che ci fa piegare a sinistra e superare, su un ponticello, un modesto corso d’acqua; la successiva breve salita ci porta poco a valle della piazzola dove ha termine la carrozzabile della Val di Togno. Qui inizia il sentiero che risale la media Val di Togno, fino alla Val Painale. Sul lato destro della piazzola troviamo la sua partenza (segnavia rosso-bianco-rosso; nel prosieguo se ne troveranno altri, bianco-rossi). Scavalcato un modesto corso d’acqua su un ponticello, proseguiamo su una sorta di pista, passando a destra di tre baite diroccate ed isolate. Davanti a noi, la Val di Togno fa di tutto per nascondere ogni motivo di attrattiva: appare chiusa, angusta, non lascia intravedere nulla dei suoi orizzonti più alti. Alla nostra destra sentiamo rumoreggiare le acque dell’Antognasco (antugnàsch, l’antico flumen del tognascho o flumen oltognaschum; ma gli alpeggiatori di Albosaggia lo chiamano “ ‘l brèm”, cioè il torrente), o meglio, quel tanto delle sue acque che non viene captato ben più a monte per essere convogliato nella condotta forzata che serve la centrale idroelettrica di Lanzada.
Le baite, ben curate, sfruttano un modesto pianoro, assediato, ad ovest (cioè verso monte), da un imponente corpo franoso. A monte della frana, però, spiccano i salti rocciosi che, splendenti alla luce meridiana, conferiscono una particolare bellezza al versante occidentale della valle; tormentato, caotico, ombroso e selvaggio, invece, quello opposto. Oltre le baite, la mulattiera riprende a salire, in una selva, proponendo per sei volte la sequenza di tornanti sx-dx. Superata una vallecola, torniamo nel territorio del comune di Montagna: si tratta, infatti, del valùn de la fòppa, che scende verso est dal monte della Foppa (munt de la fòppa, l’antico monte Grom – da “grumus”, altura - , costituito da ortogneiss e scisti cristallini della “falda di Sella”, m. 2461), e segna il confine fra i comuni di Spriana e Montagna. Dopo una nuova doppia sequenza sx-dx, che precede una seconda modesta vallecola, usciamo all’aperto, in corrispondenza di un tratto un po’ ripido. Possiamo osservare, sul lato opposto della valle, un versante battuto da slavine, che hanno portato allo scoperto il suo livido cuore di roccia: per questo è stata chiamata “val de la lavadüra” (nell’ottocento: “Valle detta della Lavadura”), con evidente allusione a slavine e valanghe.
Una doppia sequenza di tornantini sx-dx è seguita da un tratto che alterna qualche saliscendi, finché giungiamo in vista dell’alpe Rogneda (alp rugnéda, m. 1668), ampio terrazzo al quale ci sembra di respirare con maggiore libertà. Il nome probabilmente non allude ad una sgradevole malattia della pelle (o, metaforicamente, alla sfortuna), ma ad un muschio che attecchisce sul legno. A voler essere pignoli, poi, l’alpe Rogneda vera e propria è costituita dai prati sul lato opposto della valle; il sentiero che percorriamo e che resta ad ovest dell’Antognasco taglia i prati denominati “campéi”. Raggiunta la sommità di un modesto dosso, vediamo le due baite dei Campéi, il ponticello che scavalca l’Antognasco e la baita dell’alpe Rogneda (la bàita de la rugnéda, ricovero, in passato, dei manzulér, cioè dei pastori che curavano i manzöi, le manzette separate dalla vacche da latte e destinate, in quanto più agili, ai pascoli più malagevoli). A monte dell’alpe Rogneda scende il vallone denominato val Rogneda (val de la rugnéda), che scende dalla bocchetta del Torresello (buchèl de la turésölla): diversi anni fa il distacco di una placca rocciosa, che si è frazionata in grandi massi, ha ucciso otto mucche al pascolo, lasciando però illesi i pastori. Un altro segno inquietante che sicuramente alimenta la fama disgraziata della Val di Togno. Questo alpeggio e quelli più a monte hanno visto per secoli i ritmi e gli scenari tipici della vita alpigiana. Vi si trovano le baite con "masùn" (stalla), "solée dal fée" (fienile, nel quale si potevano raccogliere stagionalmente 80-100 quintai di fieno), cucina, dormitorio ed il vicino "casèl del lacc'", il baitello adibito alla conservazione del latte. Ciascuna baita era di proprietà di una famiglia, che però era costituita spesso da più nuclei che vivevano sotto il medesimo tetto. In passato a questi alpeggi salivano, da maggio a settembre, una quarantina di famiglie da Portola, Masoni, Caleuscio e Geroni. A settembre si ridiscendeva a valle, portandovi il fieno raccolto per l'inverno. Anche qui si consumavano le incredibili acrobazie dettate dalla fame di fieno: per un paio di settimane si saliva sui versanti più impervi (oggi appannaggio delle capre) per tagliare con il "fulcèt" il fieno selvatico, lo "scignùn", che poi veniva lasciato seccare e fatto scivolare verso il basso, per essere infine raccolto nel "campacc'". Era talmente insidioso e sdrucciolevole da meritare il nome di "céra". Questa pratica era talmente rischiosa che più d'uno vi perse la vita precipitando fra le rocce. Una volta alla settimana le famiglie in alpeggio ricevevano la visita dei congiunti rimasti nei nuclei più a valle: portavano loro approvvigionamenti e ricevevano il burro da vendere in campio di pasta, farina, riso e sale per gli animali (la mulattiera Caparé-Mialli era chiamata nell'Ottocento "strada del sale"). Ma in Val di Togno salivano anche i "Bosacc'", cioè i pastori di Albosaggia, riconoscibii per l'accento e per qualche termine mutuato dalla bergamasca, come "folegasc'" (materasso), invece di "paiùn".
Ma vediamo come proseguire nella salita allalta valle. Dopo una breve discesa, raggiungiamo un bivio: scendendo verso destra ci portiamo al ponticello menzionato, mentre proseguendo diritti continuiamo nel percorso per l’alta valle. Poco oltre il bivio, un cartello escursionistico dà l’alpe Guat a 30 minuti, l’alpe Painale ad un’ora e 30 minuti ed il passo degli Ometti a 3 ore e 30 minuti. Da qui abbiamo la netta percezione dell’andamento della valle, che piega verso destra (nord-est). Ma quel che colpisce maggiormente lo sguardo è la splendida pecceta alla nostra sinistra, soprattutto in autunno, quando il verde degli abeti si intreccia ai colori più caldi dei larici, con gialli vivaci e tonalità rosseggianti. A monte della pecceta il pascolo denominato Pian dei Signori (ciàn di sciùr), che si stende, per lunga fascia, ai piedi del monte Palino (munt palìn, m. 2686, curiosamente denominato, nella carta topografica del Regno Lombardo-Veneto – 1833 -, monte Scofrina). La denominazione forse allude alla già citata leggenda dei gaudenti sondriesi che in agosto si scatenerebbero in una fosca ridda; da qui, comunque, non lo possiamo vedere, per cui non ci è possibile cercare segni che attestino il suo eventuale fondamento.
Il doppio salto, per quanto non molto alto, è davvero suggestivo: le acque hanno scavato una marmitta nel duro gneiss, prima di gettarsi nel secondo e più modesto salto e smorzare la propria ira in una bella pozza. Una nuova sequenza di tornanti sx-dx ci fa guadagnare quota rispetto al fondovalle, ed è seguita da tratti quasi pianeggianti che si alternano a brevi salite.
Dopo una rapida sequenza di tornantini sx-dx, rientriamo nel bosco di larici (con qualche pino mugo). Dopo una nuova sequenza di tornanti sx-dx, il sentiero passa sotto le ampie fronde di un grande larice secolare. Non un larice qualsiasi, ma il larice per antonomasia, conosciuto, appunto, localmente come “ ‘l làres”. I suoi rami sembrano braccia reclinate nel gesto di carezzare, forse ghermire, o anche solo costringere all’umiliazione simbolica delle Forche Caudine il viandante solitario. Dobbiamo, infatti, chinarci per passare, e lo sguardo non può non soffermarsi su quell’erba rada ed amara di cui, secondo la nota leggenda, debbono pascersi le anime dannate dei gaudenti sondriesi. Qualche segno del loro disperato pasto notturno potrà forse dimostrarci la verità di quel che fra i pastori della valle da secoli si racconta. Usciti di nuovo dal bosco, vediamo che l’ultima soglia non è lontana. Davanti a noi il pizzo Scalino non si vede più; è sostituito da due cime quasi gemelle, il pizzo Painale, a sinistra, ed il pizzo Canino, o pizzo del Gombaro, a destra. In basso, alla nostra destra, l’Antognasco precipita da alcune cascatelle, stretto fra le scure rocce della gola denominata “bucàl”; in alto, invece, si mostra il profilo regolare dell’estrema propaggine occidentale della Cresta del Gallo. Se ci volgiamo indietro, infine, vediamo, più in basso, i pianori degli alpeggi Guat e Carbonera, mentre sul fondo l’orizzonte è chiuso dal breve spicchio della catena orobica concesso dalle serrate pareti della valle, che mostra la valle del Livrio, il pizzo Stella e, alla sua sinistra il passo di Publino. Avanti, ancora: superata una vallecola, proseguiamo nella salita, mentre sulla destra, in basso, vediamo, presso una gola scavata dal torrente, il manufatto in cemento che segnala la partenza della condotta forzata che convoglia parte delle acque dell’Antognasco alla centrale di Lanzada. Salendo, attraversiamo un corpo franoso, passando, poi, alti su una nuova gola, che vediamo sempre alla nostra destra, approssimandoci al corridoio pianeggiante scavato nella roccia per il quale passa il torrente prima di precipitare nella gola.
È come l’accesso ad un mondo nuovo: non più versanti incombenti, ma una maestosa corona di cime che si dispone a semicerchio a chiudere l’orizzonte ed a recingere, nella sua austera lontananza, un alpeggio ricco di acque e dolci versanti di un verde vivo e splendente. Si giustificano quindi le affermazioni della Guida CAI alla Valtellina (ed. 1884): “Questa valle disseminata di maggenghi e di alpi, e racchiusa fra creste scoscese, è assai pittoresca, nell’ultima parte soprattutto…”.
È il momento opportuno per riportare un divertente episodio, che ebbe come cornice, sul finire dell’ottocento, proprio l’alpe Painale e che ci viene narrato dal già citato Bruno Galli Valerio: “L’alpe Painale è il regno delle marmotte. Esse prosperano in questa grande distesa di grossi sassi, sulle rive del piccolo lago verdeggiante. Le si ode fischiare per ogni dove, vedonsi alcune ritte come picchetti, a sentinella sulle rocce, o correre attraverso i prati, seguite dai loro piccoli. Lassù sono tranquille, sì lontane dai villaggi perché in inverno le si possa scovare. Giuocano tiri divertenti a coloro che non le conoscono. E così un giorno mandarono lassù, con un sacco di farina per i pastori, un giovane garzone che mai aveva veduto delle marmotte. Giungendo all’alpe, il giovane sentì fischiare. Per tutta la valle non aveva incontrato nessuno, si rallegrò nell’udire qualcuno. Guardò ovunque, non vide nessuno.
Continuò per la strada, un poco deconcentrato. Sentì fischiare di nuovo e, questa volta, da più parti. Aprì ben bene gli occhi: nessuno. Furioso, pensando che i pastori si burlassero di lui, il nostro garzone gettò a terra il sacco, si accucciò all’ombra di un grosso sasso, mormorando: - Se vogliono la loro farina, vengano a cercarla. – Qualche tempo dopo, un pastore che passava di là trovò il garzone tranquillo tranquillo, sdraiato a terra. – E’ così che tu ci porti la farina? - - Quando avrete finito di burlarvi di me, ve la porterò – e spiegò ciò che gli era capitato. Che risate il pastore, che dovette spiegare al povero garzone come all’alpe Painale non solo gli uomini fischiano, ma anche le marmotte.” (op. cit.)
L’aspetto bucolico dell’alpe non deve però far dimenticare la durezza delle condizioni di vita degli alpigiani che la caricavano in passato. Può offrirci un’idea delle loro condizioni di vita il quadretto tratteggiato sempre da Bruno Galli Valerio, il quale così scrive, nel resoconto della prima ascensione del pizzo Painale per la punta ovest: “Quando, con G. Bonomi, giunsi all’alpe Painale (2104 m.), nel pomeriggio dell’11 settembre 1898, la prima cosa di cui ci occupammo fu di trovare un ricovero per la notte. All’alpe non c’era più nessuno perché il bestiame era già sceso. Mentre cercavamo, una figurina apparve sulle gande verso il passo del Forame. Era il pastore delle pecore che ci aveva visto e che veniva verso di noi. Fatta la presentazione, ci offrì l’ospitalità. Per gande, arrivammo alla dimora del pastore. Era formata da due corpi di costruzione: uno era un grosso blocco formante il tetto; era stato chiuso davanti con un muro a secco, e c’era posto solo per una persona. L’altra parte della costruzione era una specie di casupola fatta con sassi sovrapposti a secco e nella quale bisognava entrare strisciando. Vi si trovava posto per due, ma non per le gambe, che, sdraiati, esse uscivano dall’apertura che fungeva da porta. La cucina veniva fatta all’aperto, fra due pietre. Lo chiamammo Gtand Hotel dello Scalino.” (B. Galli Valerio, op. cit.).
L’alpe Painale (val del painà) non è una vera e propria spianata, per la verità, ma un susseguirsi di gobbe, conche e pianori, che rende il paesaggio assai vario ed interessante, ma ci toglie la visuale del laghetto di Painale (lach del painà) e del rifugio De Dosso (rifùgiu brunu de dòs), mete dell’escursione. Procediamo per un buon tratto verso il rifugio, prima di passare in rassegna la bella teoria di cime che ci accoglie. Il sentiero diventa assai incerto, per cui dobbiamo affidarci ai segnavia (piuttosto radi, per la verità). Percorriamo dapprima il lato destro della piana che si apre davanti a noi; poi ci portiamo più o meno al centro, raggiungendone il limite e passando in mezzo a due modeste formazioni di rocce arrotondate affioranti, che ci introducono ad una seconda piana, più ondulata, sul cui fondo vediamo una piccola baita, con alle spalle un modesto gradino roccioso (bàita dal làach). Proseguiamo in direzione della baita, passando alla sua destra ed a sinistra di un baitello (segnavia bianco-rosso), che sono entrambi aperti e possono, quindi, offrire riparo in caso di maltempo. Proseguiamo passando a destra del gradino roccioso e ci affacciamo ad una terza piana erbosa.
È tempo di passare in rassegna le cime che coronano la Val Painale, partendo dal suo angolo nord-occidentale, cioè dalla nostra sinistra. È, di nuovo, il pizzo Scalino (piz scalìn) a fare gli onori di casa, ma, pur essendo la cima più alta, con i suoi 3323 metri (è anche il punto di maggiore elevazione del territorio comunale di Montagna), non è certo quella che spicca per mole ed imponenza. Singolare destino dalla valle: anche in questo caso sembra soffrire la sua condizione di sorellastra della Valmalenco, che la natura, madre o, leopardianamente, matrigna, ha dotato di scenari ben più appariscenti. Il pizzo Scalino, infatti, viene anche denominato “il Cervino della Valmalenco” proprio perché da gran parte di questa valle si mostra con un profilo elegante e slanciato, tanto da essere il più ritratto nelle immagini che l’hanno fatta conoscere nel mondo. Profilo elegante e slanciato che, invece, è negato alla Val di Togno, la quale si deve accontentare di una cima in apparenza ben più modesta e tondeggiante.
E poi, secondo voi, a quale valle avranno rivolto lo sguardo ammirato gli arditi topografi dell’imperial casa degli Asburgo che, primi, ne raggiunsero la vetta nel lontano 1830 (ben prima che vi salissero, nel 1866, gli alpinisti inglesi Tuckett e Brown, con le guide Almer ed Andermatten)? Osserviamo, en passant, che il pizzo Scalino è comunque una presenza perfettamente intonata allo scenario della valle dei misteri per eccellenza, la Val di Togno, appunto. Il mistero dei misteri è quello del tempo, ed una nota leggenda vuole che il pizzo Scalino sia un monte magico, in realtà un castello, che ospiterebbe, nei suoi nascosti recessi, una sorta di orologio che regola la scansione stessa del tempo. Da tale castello, nelle notti di plenilunio, antichi cavalieri tornerebbero a cavalcare i loro fieri destrieri, contendendosi lo sguardo ammirato di dame d'altri tempi ed ingaggiando nell'aria duelli senza fine. Senza fine, come il tempo.
Tempus fugit, e scivola via anche il nostro sguardo, verso destra, passando per la poco pronunciata cima di Val di Togno (scimma de val de tugn, m. 3054, raggiunta per la prima volta da L. Corti, G. Lavizzari e F. Sassi de Lavizzari nel 1875) e raggiungendo, sul punto più basso del crinale che separa Val Painale e Val Forame (alta Val Fontana), il passo di Forame (pas del furàm, m. 2833), porta naturale fra le due valli. Poi, l’imponente gruppo del Painale, che si propone, maestoso, in primo piano. La vetta regina, cioè il pizzo Painale (piz painà, m. 3248, raggiunto, per la prima volta, il 9 agosto del 1885 da P. Magnaghi ed E. Schenatti, e costituito da banatite e monzoniti permo-carbonifere), resta, però, seminascosta alle spalle dell’anonima cima quotata 3058 metri. Alla sua destra, il vero signore della valle, o, almeno, quello che da qui appare tale, per imponenza ed eleganza, il pizzo Canino o pizzo di Gómbaro (piz de gùmber, m. 2910, salito per la prima volta il 3 giugno 1909 da E. L. Strutt e J. Pollinger).
Una curiosità: in Val di Togno e nei suoi pressi la toponomastica propone divertenti bisticci linguistici, con l’apparente filastrocca dei pizzi Canìno, Calìno e Palìno (chi diede il nome a queste cime non difettava di spirito dell’umorismo). Dal sorriso linguistico all’interrogativo etimologico: il toponimo Gómbaro, che si estende alla valle ad est dello stesso (propaggine della Val Painale), deriva dalla voce dialettale “gómbet”, cioè “gomito”? Nell’attesa della risposta, annotiamo che dietro la poderosa piramide rocciosa del pizzo si nasconde la più elevata punta di Vicima (m. 3131), mentre alla sua destra è ben visibile, anche se poco pronunciata, la cima di Vicima (scìmma vicìma, m. 3123, salita per la prima volta da A. Cederna e M. Schenatti nel 1885). Più a destra ancora, l’evidente depressione del passo di Vicima o di Gombaro (pas de vicìma o pas de gùmber, m. 2841, porta di comunicazione (piuttosto malagevole) fra valle del Gombaro e val Vicima (laterale occidentale della Val Fontana).
Proseguiamo in senso orario: ecco la bellissima triade delle cime Corti, Ron e Brutana, che compongono un quadro armonico nel quale la centrale vetta di Ron figura un po’ come una nobildonna medievale circondata da fedeli ancelle. La prima ancella è la punta Corti (m. 3074), al confine fra i comuni di Montagna e Chiuro, fu salita per la prima volta da Alfredo Corti, cui è dedicata, B. Corti e G. Vernoni, il 27 agosto del 1911. La più celebre vetta di Ron (vètta de rón, m. 3137, forse da “ronsc”, ronchi, costituita da gneiss e scisti), sulla quale convergono i confini dei comuni di Montagna, Chiuro e Ponte in Valtellina, fu salita per la prima volta da A. Cederna e M. Schenatti il 19 settembre 1885. La seconda ancella, infine, è la Corna Brutana (corna brütàna, m. 3059, sulla quale convergono i confini dei comuni di Montagna, Ponte in Valtellina e Tresivio), che fu salita per la prima volta da da A. Cederna, E. Ghisi, P. Pini e M. Schenatti il 28 agosto 1886. La rassegna è completa, per la gioia degli occhi e dello spirito.
Manca poco anche a completare l’escursione. Seguendo un modesto dosso, fra radi larici, approdiamo ad una nuova piana, passando appena a destra di un grande ometto con brevissima discesa e tenendo la sinistra della piana, fino ad un secondo ometto. Restiamo a sinistra dell’Antognasco e raggiungiamo l’ultima piana: ora siamo in vista della baita del rifugio De Dosso, riconoscibile per i pannelli solari sul tetto, a destra di un più grande baitone (denominato, curiosamente, “cà parìgi”). Superato su un ponticello in legno il torrente, da sinistra a destra, incontriamo il cartello che recita “Alpe Painale – m. 2119”. Siamo ormai nei pressi del rifugio, e troviamo alcuni cartelli escursionistici: il sentiero 368 porta al passo degli Ometti in 2 ore, il 368/1 porta al passo Forame in 2 ore e mezza; nella direzione dalla quale proveniamo l’alpe Guat è data ad un’ora, l’alpe Rogneda ad un’ora e mezza ed il Rifugio Val di Togno a 2 ore; infine il laghetto di Painale è dato a 10 minuti.
Già, il laghetto di Painale: ce n’eravamo dimenticati. Per ora non ne abbiamo scorto traccia. Ma prima di andare a scovarlo sostiamo per un po’ al rifugio Bruno De Dosso (rifügiu brunu de dòs, m. 2119): è stato ricavato da una baita sulla sponda sinistra idrografica (destra per noi) dell’Antognasco, e dedicato a Bruno De Dosso, presidente del CAI Valtellinese dal 1981 al 1983. La struttura è di proprietà del CAI Valtellinese e, generalmente, è chiusa (per le chiavi telefonare allo 0342214300 o scrivere a caivalt@tin.it). Siamo in cammino da due ore e mezza, se siamo partiti dal rifugio Val di Togno, o da 4, se siamo partiti da Carnale; nel primo caso il dislivello in salita è di circa 800 metri, nel secondo di circa 1000. Per trovare il laghetto di Painale (lach del painà o del painàl, m. 2099) dobbiamo tornare indietro, verso l’imbocco della piana dell’alpe, in direzione però, ora, del versante montuoso alla nostra sinistra (sud-est). Il laghetto, ben nascosto in una conca a ridosso del versante, gioca a rimpiattino, ma alla fine, con un minimo di pazienza, la partita è nostra. Volgiamo, dunque, le spalle al rifugio ed incamminiamoci descrivendo una diagonale verso sinistra.
Superiamo, così, alcuni torrentelli che scendono dal vallone del Gombaro e dalla Val Mantra. Man mano che ci approssimiamo al versante montuoso, descriviamo un arco di cerchio, piegando gradualmente a destra: in pochi minuti ci affacciamo alla conca che ospita l’ameno laghetto, luogo ideale per una sosta meditabonda. Le sue acque, di un blu turchese intenso nelle belle giornate estive, non traggano in inganno: un'antica leggenda vuole che le famigerate streghe della Val di Togno eleggessero proprio questo laghetto come scenario dei loro convegni e dei sabba nelle notti scelte per l'orrendo rito, come quelle di santa Valburga e di San Giovanni. Si diceva, peraltro, che convenissero qui anche dalla vicina Valmalenco, e pare giusto ricordarlo, per non fare torto esclusivo alla Val di Togno di fronte all'illustre sorellastra. Dal laghetto, peraltro, possiamo anche gettare uno sguardo sulle cime del versante occidentale della Val Painale. Già, ce l’eravamo dimenticate, ma meritano anch’esse una menzione. A sinistra del pizzo Scalino ed immediatamente a destra della più marcata depressione del crinale intuiamo il passo degli Ometti. Proseguendo verso sinistra, ecco il monte Acquanera (munt d’acquanégra, m. 2806), salito per la prima volta da Ballabio, Barbieri e Rota nel 1912; sul versante malenco, esso domina l’alpe omonima. A seguire, il monte Cavaglia (munt de cavàija, m. 2728) ed il monte Palino (munt palìn, m. 2686), anch’esso salito per la prima volta da Ballabio, Barbieri e Rota nel 1912.
CARTA DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Apri qui la carta on-line RIFUGIO DE DOSSO-RIFUGIO CRISTINA
Vediamo, ora, per completare il quadro delle possibilità escursionistiche offerte da Val di Togno e Val Painale, le possibili quattro traversate che hanno come base il rifugio De Dosso. Innanzitutto quella al rifugio Cristina, all’alpe Prabello, in Valmalenco, per il passo degli Ometti. Dobbiamo ripercorrere per un tratto il sentiero che ci ha portato al rifugio, tornando quindi sulla destra idrografica della valle (ponticello in legno), per poi lasciare il sentiero prendendo a destra, salendo verso nord-est, in direzione della baita quotata 2182 metri (denominata sulla carta IGM Alpe Painale), alla nostra destra (non quella più bassa, di quota 2057, alla nostra sinistra). Raggiunta la baita, dobbiamo prestare attenzione ed individuare la traccia di sentiero, incerta, che inizia ad effettuare una diagonale in direzione nord-est (evitare invece quella che, alla sua destra, procede a mezza costa con andamento più pianeggiante).
La traccia si fa via via più chiara e, a quota 2250 circa, piega per un tratto a sinistra, poi di nuovo a destra, salendo in direzione nord e passando a destra della baita quotata 2331 metri. Saliamo ancora, piegando molto gradualmente a destra ed assumendo di nuovo la direzione nord-est, fino a raggiungere, a quota 2400 circa, il centro del vallone che scende verso sud dalla cima del monte Acquanera. Sul lato opposto la traccia, più debole, supera una stretta, passando sotto un salto roccioso nel quale termina il crinalino che scende verso sud dalla cima del monte Acquanera, ed appena a monte di un secondo salto roccioso. Con direzione est prima, nord-est poi, guadagniamo, quindi, quota fra magri pascoli e rocce affioranti, fino alla quota 2511, segnalata sulla carta IGM. La traccia si fa ancora più debole, ma possiamo procedere anche a vista, sempre in direzione nord-est, fra modeste balze erbose, pianette, conche di sfasciumi, roccette: puntiamo in direzione del crinale ed assumiamo come riferimento il punto collocato appena a destra della più evidente depressione del crinale medesimo.
Giunti al passo degli Ometti (pas di umét, o pas di óméc’, m. 2758), poco sopra, ad est, della più marcata depressione del crinale, si apre davanti ai nostri occhi un panorama davvero superbo: la sorellastra della Val di Togno mostra tutti i suoi gioielli, dal gruppo del Disgrazia alle cime della sua testata. Ad ovest il monte Disgrazia (m. 3678) afferma la sua regale imponenza sulle cime vicine, cioè, procedendo verso destra, il monte Pioda (m. 3431), la punta Baroni (m. 3203), il monte Sissone (m. 3331), le cime, slanciate e quasi gemelle, di Rosso (m. 3369) e di Vazzeda (m. 3297) ed il monte del Forno (m. 3214), per citare solo le principali.
Si impone poi la mole massiccia della Sassa di Fora (m. 3363). Procedendo verso destra, ecco la testata della Valmalenco, sulla quale si individuano, da ovest ad est, il pizzo Glüschaint (m. 3594), le gobbe gemelle della Sella (m. 3584 e 3564) e la punta di Sella (m. 3511), il pizzo Roseg (m. 3936), il pizzo Scerscen (m. 3971) il pizzo Bernina (m. 4049), la Cresta Güzza (m. 3869), i pizzi Argient (m. 3945) e pizzo Zupò (m. 3995), la triplice innevata cima del pizzo Palù (m. 3823, 3906 e 3882), a monte del ramo orientale della vedretta di Fellaria e, a chiudere la splendida carrellata, il più modesto pizzo Varuna (m. 3453).
E' interessante, però, anche cedere la parola al già citato Bruno Galli Valerio, che ci offre la seguente sintetica descrizione del paesaggio della Val Painale vista dal passo: "Sopra di noi si ergeva, superba, la piramide dello Scalino, davanti a noi il Painale, la vetta di Ron, la Brutana incorniciavano colle loro rocce nere, a picco, il verde anfiteatro dell'alpe del Painale, col suo laghetto di un verde glauco, là in mezzo ad enormi frane" (B. Galli Valerio, Punte e passi, a cura di Luisa Angelici e Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).
Dopo questa paura ristoratrice per le gambe e gli occhi, dobbiamo affrontare la discesa che, nel primo tratto, non è semplice, perché il versante è ripido ed occupato da un grande corpo franoso. Non dobbiamo scendere diritti, ma piegare subito a destra, traversando in direzione nord (attenzione ai segnavia), fino a raggiungere il limite di una sorta di conca-vallone, sempre occupato da sfasciumi. Ora scendiamo seguendone il limite e lasciandolo alla nostra destra, muovendoci sempre, con cautela e fatica, fra grandi blocchi, fino al suo limite inferiore. Qui giunti, traversiamo di nuovo verso destra,guadagnando un terreno meno faticoso. A quota 2500 metri circa tagliamo un largo dosso e proseguiamo nella discesa verso nord: siamo ormai sulla verticale dell’alpe Prabello, alla quale scendiamo senza più difficoltà. A quota 2350 metri circa cominciamo a piegare a sinistra, assumendo gradualmente la direzione ovest ed intercettando il sentiero che conduce al Cornetto (viene utilizzato da coloro che dal rifugio Cristina salgono al pizzo Scalino). In breve, siamo al rifugio Cristina (m. 2287), dopo circa 4 ore di cammino (il dislivello in salita è di circa 630 metri).
Se, però, non abbiamo intenzione di scendere in Valmalenco, dal passo degli Ometti possiamo proseguire l’escursione effettuando una bella traversata alta che taglia il circo terminale della Val Painale e seguendo, per buon tratto, il Sentiero Italia, che dal rifugio Cristina sale, appunto, al passo degli Ometti e traversa al passo di Forame. Per un breve tratto restiamo intorno a quota 2700, poi qualche piccola discesa ci fa abbassare un poco. Passiamo a valle di una curiosa cascatella, che esce da una spaccatura di due massicce formazioni rocciose. Scrutando davanti a noi, vediamo i segnavia su massi che posti ad una certa distanza, sotto di noi: cominciamo così a descrivere un arco in discesa, che ci avvicina ad un lungo dosso di rocce arrotondate. Alla fine lo fiancheggiamo per un tratto, in discesa, finché, a quota 2540, circa, intercettiamo la traccia di sentiero che dall’alpe Prabello sale al passo di Forame. Seguendola, proseguiamo la discesa fra facili balze erbose, approdando, infine, all’ampio pianoro dell’alpe e tornando, senza difficoltà, al rifugio de Dosso, dopo circa tre ore e mezza di cammino (anche in questo caso il dislivello approssimativo in salita è di 630 metri).
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Vediamo, ora, la seconda traversata, dal rifugio De Dosso al rifugio Cederna-Maffina per il passo di Forame. L’itinerario non è ben segnalato, ma non presenta particolari difficoltà: il passo è facilmente individuabile, così come è ben visibile il canalone di sfasciumi che sipercorre per raggiungerlo. Teniamo presente che a nord-est del rifugio una serie di piccoli colli e dossi di erbe e roccette (chiamati dòs di cavài bas e dòs di cavài òlc') nascondono alla vista l’ultima piana dell’alpe, ai piedi del versante che sale alla testata della valle.
Seguendo i radi segnavia (se siamo fortunati) o a vista, procediamo, dunque, dal rifugio verso nord-est, salendo le prime facili balze ed effettuando una sorta di slalom fra dolci dossi erbosi (pieghiamo a sinistra, direzione nord, poi ancora a destra, direzione nord est). Giungiamo, così, alla piana terminale, il "piatét", assai sfruttata dagli alpeggiatori per il foraggio pregiato che le bestie possono trovare ('l pè ggalìna), e la percorriamo restando sul limite si sinistra, per poi affrontare il largo dosso di magri pascoli e roccette che resta a sinistra del torrentello che scende dal passo. Potremo incontrare, salendo, "i guàrdi", cioè i grandi ometti, chiamati così non senza ironia, che i contrabbandieri edificarono per orientarsi nella discesa del versante in caso di foschia o cattivo tempo.
Intorno a quota 2400 pieghiamo a destra, e raggiungiamo il punto, già menzionato, nel quale ci raggiunge, in discesa, il Sentiero Italia, che da qui in poi seguiremo. Inizia, quindi, l’ultima parte della salita al passo: neppure qui i segnavia sovrabbondano, ma non si può sbagliare. Lasciamo alla nostra destra una bella morena e risaliamo un canalone di sfasciumi, rimanendo sempre a sinistra del piccolo corso d’acqua che scende dal passo. Un mare di massi rossastri è l’unico testimone delle nostre fatiche, perché la quota elevata aumenta lo sforzo. Aggirata sulla sinistra una modesta formazione rocciosa, eccoci finalmente al corridoio terminale, che adduce al passo di Forame (pas del furàm, m. 2833).
Esperienza meravigliosa, quella dei passi: ti avvicini, ed hai davanti agli occhi solo l’esile striscia della sella, stagliata contro l’infinito del cielo, e poi, d’improvviso, un altro mondo, un altro orizzonte, altri spazi, inattesi e mai visti, si dischiudono di fronte al tuo sguardo. In questo caso la sorpresa è veramente grande, anche per chi ha già familiarità con l’alta Val Fontana: quel che appare, infatti, non è solo l’ampio circo della val Forame, che chiude a nord-ovest la Val Fontana, non è solo la successione delle laterali orientali della valle, val Sareggio, valle dei Laghi e val Malgina, ma anche una fuga di quinte costituita da cime lontane, di cui non sappiamo probabilmente riconoscere il profilo, ma che ci restituiscono l’impressione di una profondità senza fine.
Merita, però, uno sguardo anche il crinale di nord-nord-est della punta Painale, che scende fino alle ultime rocce alla nostra destra: si tratta, infatti, del crinale sfruttato da chi scala la cima. La scalata è classificata come facile, ma ai profani dell’alpinismo, almeno vista così, ad occhio, non apparirà certo tale. Del resto, è cosa nota che alpinisti e consumascarpe (così si potrebbero definire gli appassionati dell’escursione) rappresentano due tipi antropologici diversi fra coloro che amano la montagna, la frequentano e la rispettano.
Bene, è tempo di por fine alle chiacchiere e di accingerci a scendere. Le chiacchiere, però, sono necessarie per prendere un po’ di tempo ed abituarsi all’idea di scendere su un versante che, nel primo tratto, ha una pendenza di tutto rispetto. Il primo passaggino, su roccia e terreno franoso, esige attenzione, ma anche più sotto, per le prime decine di metri, bisogna procedere con cautela. Una traccia di sentiero scende leggermente verso destra, per poi perdersi. Un segnavia su un masso ben visibile, sotto, ci indica che dobbiamo utilizzare un canalino ingombro di materiale franoso, oppure un piccolo dosso erboso.
Raggiunto il masso, scendiamo ancora, su un terreno sempre insidioso, ma meno ripido. Questa discesa è sconsigliabile in presenza di neve, che qui si può trovare anche ad inizio di stagione. In fondo, su un grande masso in un pianoro dove anche a stagione avanzata si annida un nevaietto, un segnavia ci attende, paziente. Senza percorso obbligato, lo raggiungiamo, puntando poi al successivo segnavia, che ci fa piegare a sinistra. La nostra meta è il rifugio Cederna-Maffina, il cui solitario edificio, perso fra i pascoli della val Forame, possiamo già individuare dal passo, guardando alla nostra sinistra. Se, dal pianoro, proseguiamo la discesa, scendiamo fino all’alpe Forame, dove troviamo una baita isolata, a 2168 metri, ed intercettiamo il sentiero che sale al rifugio dall’alpe Campiascio (m. 1680). Questa soluzione deve essere scelta se vogliamo terminare l’escursione non al rifugio Cederna-Maffina, ma al rifugio ANA Massimino Erler, in località Campello: in questo caso si deve proseguire su una carrozzabile che, dall’alpe Campiascio, scende al Pian dei Cavalli, per poi proseguire fino al rifugio.
Chi vuole, invece, raggiungere la capanna Cederna-Maffina deve seguire il percorso disegnato dai segnavia, che effettua una traversata più breve, in quanto, poco sopra quota 2500, punta direttamente in direzione del rifugio, superando una fascia di massi, fra quota 2520 e quota 2550 circa, e proseguendo in direzione di un vallone dal quale scende uno dei corsi d’acqua che confluiscono nel torrente della valle. Superato il vallone, alla fine siamo al rifugio, posto a quota 2587, dopo circa 4 ore e mezza di cammino (il dislivello approssimativo in altezza è di 720 metri).
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Torniamo al rifugio de Dosso, per menzionare la terza possibile traversata, più impegnativa e riservata ad escursionisti particolarmente esperti, quella dal rifugio De Dosso alla Val Vicima (laterale della Val Fontana) per il passo di Vicima o del Gombaro, con discesa al rifugio Erler. Si tratta di un itinerario non segnalato, né da cartelli, né da segnavia, anche se non pone problemi di orientamento (se non nella parte mediana della Val Vicima, dove però qualche segnavia si trova). La difficoltà è data dalla natura del terreno, costituito da sfasciumi, e dal primo ripido tratto di discesa in Val Vicima (da evitare con presenza significativa di neve).
Dal rifugio De Dosso dobbiamo procedere in direzione est-sud-est, seguendo un sentierino che taglia la parte bassa dell’imponente versante meridionale del pizzo del Gombaro, si addentra nella valle di Gombaro (val de gùmber, sfruttata come pascolo fino all'alluvione del 1987, che l'ha resa irragigungibile per il bestiame) e raggiungendo un ampio pianoro (m. 2250 circa) occupato da sfasciumi, dove convergono il vallone che scende dal passo di Vicima, a sinistra, e quello, a destra, che conduce all’ampio anfiteatro chiamata Buco del Cacciatore (böc del casciadù), di grande interesse naturalistico, perché ospita un importante rock glacier, antichissimo ghiacciaio interamente coperto da una colata di sfasciumi, uno dei maggiori delle Alpi Retiche.
Ci affacciamo, così, al ramo meridionale della parte più alta della solitaria Val Vicima (il ramo settentrionale è denominato Val Molina), spettacolo insieme desolante ed affascinante di solitudine estrema. Solo il versante orientale della Val Fontana, con il pizzo di Combolo, che vediamo di fronte a noi, attenua un po’ il senso di smarrimento di fronte a questo scenario che sembra respingere con repulsione la semplice presenza dell’uomo. Una curiosità linguistica: esistono altre due valli che hanno lo stesso nome, la Val Vicima laterale della bassa Val Tartano e la Val Vicima laterale della Valle di Preda Rossa, in Val Masino. Il toponimo "Vicima" deriva, forse, dall'apocope di "vicus" e "cima", per cui significherebbe "la cima del vico, del villaggio".
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Ricordiamo, infine, come quarta possibile traversata dal rifugio De Dosso, quella, già menzionata, all’alpe Rogneda (e di qui, per la bocchetta di Mara, al rifugio Gugiatti-Sertorelli), seguendo l’alto versante orientale della Val di Togno. Anche questa traversata richiede grande esperienza escursionistica, per la scarsa segnalazione ed il superamento di alcuni passaggi un po’ esposti. Per effettuarla dobbiamo, nel primo tratto, seguire le indicazioni per il passo di Vicima; raggiunto però l’ampio pianoro di sfasciumi di quota 2250 in Valle del Gombaro, dobbiamo prendere a destra, attraversando un torrentello e procedendo in direzione del Buco del Cacciatore, ben visibile davanti a noi; prima di raggiungere la sua ampia conca, dobbiamo piegare ancora a destra e salire, seguendo la val Mantra (val de la màntra), al passo del Gallo (pas del gàl, m. 2576, chiamato così dal gendarme roccioso che lo presidia, la cui forma richiama, appunto, la cresta di un gallo), intaglio sul crinale roccioso denominato cresta del Gallo, che introduce all’alta val Lavigiola (val lavigiölla).
Ci affacciamo, dunque, all’amplissima e luminosa alpe Rogneda, e ci salutano, sul fondo, a sud, le numerose cime della sezione centrale della catena orobica. Scendiamo, passando dal territorio del comune di Montagna a quello di Tresivio, seguendo una traccia di sentiero ed i segnavia bianco-rossi, dapprima verso sinistra, poi più direttamente verso valle, fino ad intercettare la pista sterrata che risale interamente l’alpe, terminando alla bocchetta di Mara. Seguendola verso destra e passando nei pressi di un singolare ed enorme masso erratico, saliamo, in breve, alla bocchetta (buchèl o buchéta de màra, m. 2342), che si affaccia sulla non meno luminosa alpe Mara e ci riporta nel territorio del comune di Montagna. Proseguiamo nella discesa, guidati da segnavia bianco-rossi, fra dossi gentili, fino ad intercettare la pista sterrata che dall’alpe Mara porta al rifugio Gugiatti-Sertorelli. Seguendola verso destra, in breve siamo al rifugio (rifügiu gugiatti-sertorelli, m. 2137), dopo circa 5 ore di cammino (il dislivello approssimativo in altezza è di 680 metri). CARTA DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Apri qui la carta on-line CARTA DEI PERCORSI sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Apri qui la carta on-line VAL DI TOGNO-VAL PAINALE
Mappa del percorso - elaborata su un particolare della tavola di Regione Lombardia e CAI (copyright 2006) e disponibile per il download dal sito di CHARTA ITINERUM - Alpi senza frontiere La riproduzione della pagina o di sue parti è consentita previa indicazione della fonte e dell'autore Copyright © 2003 - 2024 Massimo Dei Cas |
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