Camminndo sul luminoso crinale fra Media Valtellina e Val Masino
Non sarà il Signore degli Anelli, ma è di certo un signor anello, anzi, un signor doppio anello quello che andiamo a proporre come escursione primaverile (preferibilmente tardo primaverile, diciamo ideale per il mese di maggio). Si potrebbe chiamarlo l’anello dell’Olmo, dalla Croce dell’Olmo, luogo mitico e mistico che doppiamo appena nel suo punto culminante. Ma anche l’anello di Scermendone, visto che passa per lo splendido alpeggio di Buglio che ha questo nome, poi per la Val Terzana (chiamata anche valle di Scermendone) ed infine per il laghetto di Scermendone (oltretutto i due anelli si congiungono in corrispondenza del simpatico – ed utilissimo, in caso di bisogno - bivacco di Scermendone). Se ci piace potremmo, infine, chiamarlo anello del fuoco e dell’acqua. Più avanti capiremo perché.
Punto di partenza e di arrivo è un altro alpeggio, quello di Granda, sopra Ardenno. La raggiungiamo salendo a Buglio in Monte e, prima di raggiungere la piazza centrale, prendendo a destra, per poi volgere subito a sinistra (indicazioni per Our). Una strada con fondo in asfalto sale alla parte alta del paese e prosegue con diversi tornanti (il fondo diventa in cemento) raggiungendo il maggengo di Our di fondo, per poi proseguire verso Our di Cima; la seguiamo fino all’ultimo tornante destrorso che precede Our di Cima (quota approssimativa: 1300 metri). Qui la carrozzabile tocca la pista sterrata che da Erbolo, sopra Ardenno, sale all’alpe Granda.
Possiamo imboccare questa pista con l’automobile (c’è una sbarra, ma è sempre aperta), tenendo però conto che il fondo è dissestato e che lo spazio per parcheggiare all’ingresso dell’alpe Granda è assai limitato (nei finesettimana estivi conviene lasciare l’automobile al tornante destrorso e percorrere la pista a piedi: ci vuole circa un’ora di cammino per raggiungere Granda). Salendo, passiamo dal comune di Buglio a quello di Ardenno (nel quale rientra l'alpe Granda). Dopo l’ultimo lungo traverso verso ovest, raggiungiamo il settore nord-orientale dell’alpe Granda (Grènda), nei pressi di una baita solitaria.
I suoi prati disegnano una lunga striscia, lungo la direttrice sud-ovest – nord-est, adagiata sul lungo e splendido crinale che, dalla cima di Vignone, passando per l’alpe Scermendone, l’alpe Granda, il Sas del Tii ed i prati di Lotto, scende a dividere l’imbocco della Val Masino dalla piana di Ardenno. Sul limite sud-occidentale dell’alpe si trovava anche il rifugio Alpe Granda (che ha subito due incendi), ora sostituito dal nuovo bivacco Baita degli Alpini all'Alpe Granda (m. 1630).
Sul suo limite settentrionale, all'imbocco del tratturo per Scermendone, è stato invece costruito il nuovo rifugio Alpe Granda, di fronte all'incantevole scenario delle cime del gruppo del Masino che si mostrano a nord (da sinistra, pizzo Porcellizzo, cima del Cavalcorto, pizzo Cengalo e pizzi del Ferro. Alla loro sinistra la selvaggia costiera Cavislone-Lobbia e la cima del Desenigo, mentre a destra il monte Arcanzo e la cima degli Alli. Se poi dal rifugio procediamo salendo al vicino cocuzzolo del monte Granda, per poi volgerci indietro, vedremo comparire sua maestà il monte Disgrazia ed alla sua destra anche i Corni Bruciati. Salendo verso il limite del bosco a nord, verso sinistra, noteremo una roccia sulla quale è stata scolpita una Madonna con Bambino.
La gestione dell'alpeggio, di decisiva importanza per l'economia dei secoli passati, era affidata ad una serie di figure fra le quali si istituiva una gerarchi netta. Al vertice stava il caricatore, cui le famiglie dei "lacée", cioè dei contadini che possedevano mucche, affidavano i capi di bestiame. Veniva, poi, il casaro, alla cui sapiente arte era affidata la confezione dei prodotti d'alpe, formaggi e burro. Seguivano il capo-pastore ed i pastori, che, coadiuvati anche da abili cani, sorvegliavano il bestiame e ne governavano gli spostamenti, stando attenti che nessuna mucca cadesse nei dirupi (il che rappresentava un vero e proprio dramma).
Infine, i più giovani fungevano da cavrèe (pastori di capre) e cascìn (garzoni d'alpe, cui erano affidati i compiti più umili, in genere ragazzini affidati dalle famiglie ai caricatori d'alpe nella stagione estiva). Nella vita d'alpeggio, che iniziava ai primi di giugno e durava 80-83 giorni, due momenti rivestivano un'importanza particolarissima: il ventottesimo ed il cinquantaseiesimo giorno si effettuava la pesa, cioè si pesava il latte prodotto da ciascuna mucca, alla presenza del proprietario, per pattuire, su tale base, il compenso che a questi andava corrisposto.
L'alpeggio costituisce oggi la meta di una facile e molto remunerativa escursione, per la sua posizione estremamente panoramica, sul confine fra Val Masimo, a nord, e bassa Valtellina, a sud. Gli appassionati della geologia vi potranno trovare più di un elemento di interesse. Passa di qui, infatti, nelle profondità della terra, la faglia che separa la falda Margna dalla falda Sella. Siamo sul limite settentrionale dellla falda paleoafricana. Tutto ciò, ovviaente, sfugge al nostro sguardo, come pure, probabilmente, sfugge la diversa natura delle rocce dell'alpe, antichissimi gneiss, micascisti e vene di quarzo, rispetto alle molto più giovani rocce del gruppo del Masino, il cosiddetto plutone Masino-Bregaglia, di cui vediamo un'interessante sezione a nord (testata della Val Porcellizzo, costiera Arcanzo-Remoluzza, monte Disgrazia).
Il valore panoramico dell'alpe è impreziosito da uno splendido colpo d'occhio sulla catena orobica, a sud, che mostra in tutta la sua bellezza un'ampia sezione della Val Gerola e, sul limite destro, il caratteristico corno del monte Legnone. Il rifugio Alpe Grande costituisce, infine, un possibile punto di appoggio o di ristoro.
Torniamo al racconto del'escursione. Dal punto terminale della pista prendiamo a destra e, superata una nuova baita isolata (che lasciamo alla nostra sinistra, con la modesta pozza nella quale spesso si specchia), giungiamo in vista del rifugio Alpe Granda, leggermente alto alla nostra destra, bellissimo nella sua struttura interamente in legno. Da qui parte l’anello che, nella sua prima parte, si sviluppa toccando gli alpeggi gemelli del sistema Merla-Verdel-Oligna, sopra Buglio, posti più o meno alla stessa quota di Granda, per poi salire all’alpe Scermendone e raggiungere il laghetto omonimo.
Procediamo in una splendida pecceta, nella quale il sole gioca la sua eterna partita a rimpiattino con le profondissime ombre del bosco. Attraversiamo, così, il vallone che scende verso sud-ovest dal pizzo Mercantelli (sciöma dè Mercantéi), riportandoci nel territorio del comune di Buglio e, dopo un ultimo tratto nel quale la vegetazione progressivamente si dirada, approdiamo alla parte bassa del prato dell’alpe Merla, riconoscibile per la baita ristrutturata, sulla sommità di un grazioso cocuzzolo erboso (m. 1729).
Anche quest’alpe è un crocevia di sentieri lungo le direttrici ovest-est e sud-nord. Infatti dal maggengo di Our di Cima parte un sentiero che risale il dosso a monte dei prati, fino al punto in cui questo si restringe (si trova, qui, un passaggino che richiede attenzione, per superare un gruppo di roccette), per poi raggiungere il bel bosco di conifere che ricopre il caratteristico cocuzzolo che precede l’alpe, e terminare alle baite più basse di questa. Il sentiero prosegue, poi, verso nord, piegando poi in direzione nord-est ed intercettando, dopo una lunga traversata, il sentiero che sale da Oligna verso Scermendone. Anche in questo caso, ignoriamo la direttrice sud-nord e proseguiamo verso nord-est, seguendo le indicazioni per l’alpe Oligna. La partenza del sentiero non è molto evidente: nel primo tratto, ancora all’aperto, passiamo nei pressi di una vasca per l’acqua. Anche il primo tratto nel bosco non è molto evidente, poi la traccia si fa più chiara.
Terza alpe, terzo crocevia. Questa volta il sentiero che sale da sud proviene dal maggengo di Sessa, e prosegue, con debole traccia, in direzione nord-nord-est (non è segnalato né sulla carta IGM, né su quella Kompass), seguendo il filo del dosso a monte dell’alpe, fino ad uscire dal bosco di larici ad una quota di circa 1900 metri. Un’ulteriore breve salita sul ripido versante di prati consente, infine, di intercettare il sentiero che, seguito verso sinistra, porta alla chiesetta di S. Quirico (m. 2131), sul limite nord-orientale dell’alpe Scermendone. Potremmo dunque seguirlo per raggiungere il bivacco Scermendone, poco distante dalla chiesetta, ma è più semplice seguire una via più comoda, anche se un po’ più lunga. Si tratta del sentiero per Scermendone, indicato da un cartello, che entra nel bosco sul lato alto di sinistra dell’alpe (direzione nord).
Risalito un ripido versante di prati, ci ritroviamo, così, all’edificio che serviva per il ricovero del bestiame, sul limite nord-orientale dell’alpe (m. 2070). Intercettiamo qui il già citato trattuto che sale direttamente dall’alpe Granda, e che sfrutteremo al ritorno. Alla nostra destra è già ben visibile la chiesetta di S. Quirico. Presso il baitone, sulla destra, si trova anche, appena segnalata da una scritta malcerta, una sorgente seminascosta in una piccola nicchia di sassi (una scritta appena decifrabile la denomina “aqua occ”). Se non è prosciugata (ed a maggio molto probabilmente non lo è), bagniamoci gli occhi con quest’acqua e saremo preservati dalle malattie che potrebbero colpirli.
Il motivo risale ad un tempo antichissimo, quando ancora il monte Disgrazia si chiamava Pizzo Bello ed i Corni Bruciati non avevano ancora questo nome, perché splendidi alpeggi di un verde vivissimo ne contornavano i versanti più alti. Venne, un giorno, Cristo, travestito da mendicante, fra i fortunati pastori che caricavano quegli alpeggi. Si presentò a due fratelli, chiedendo ospitalità. L’uno lo cacciò a male parole, l’altro, preso da pietà, lo ristorò. Ed allora il misterioso mendicante gli disse: fuggi da qui, torna a Buglio e non voltarti indietro per nessun motivo. Il pastore non comprese, ma obbedì. Salì da Preda Rossa a Scermendone, mentre qualcosa di terribile accadeva alle sue spalle, annunciato da rumori sordi e bagliori sinistri.
Stava per lasciarsi alle spalle anche Scermendone, quando la tentazione lo vinse, e si voltò: vide, solo per un attimo, una pioggia di fuoco che dal cielo bruciava monti ed alpeggi, facendo rotolare dalla cima dei monti grandi massi incandescenti. Poi una fiammella colpì i suoi occhi e lo rese cieco. Pregò allora il Signore di perdonare la sua colpa, ed udì la sua voce, che gli comandò di bagnarsi gli occhi con l’acqua che correva lì vicino. Così fece, e riebbe la vista. La sorgente, sgorgata miracolosamente quel giorno, è ancora lì, e la sua acqua benedetta ricorda la terribile punizione divina, ma anche la sua misericordia. E dei pastori egoisti, che ne è stato? La fantasia popolare vuole (ma più d'uno assicura di aver udito con le proprie orecchie il batter di mazza) che siano stati condannati a battere eternamente contro gli innumerevoli massi caduti dai fianchi di monte Disgrazia, Corni bruciati e sasso Arso: sono i "danàa de Préda Rosa".
Il mito, perso nelle abissali lontananze della memoria, ci parla, dunque, del fuoco e dell’acqua, e ci consegna un tema da meditare mentre inanelliamo passo dopo passo. Da un segno religioso ad un altro: salendo verso destra, eccoci alla splendida chiesetta di San Quirico (san Cères, m. 2131), con la campanella che, nei secoli, a chiamato a raccolta i pastori per la preghiera. Forse anticamente essa fungeva anche da xenodochio, cioè da ricovero di viandanti, mercanti o pellegrini, che, percorsa poi l’intera Val Terzana, valicavano il passo di Scermendone, attraversavano l’alta valle di Postalesio e, per il passo di Caldenno, scendevano in Val Torreggio (Val del Turéc') e di qui in Valmalenco.
Oggi la campanella chiama a raccolta un affezionato pubblico di escursionisti o semplicemente di innamorati di questi luoghi che salgono qui la seconda domenica di luglio, nella festa dedicata al santo. Data la natura dei luoghi, vien fatto di pensare al santo come ad un vegliardo dalla lunga ed austera barba. Pochi sanno, invece, che si tratta di uno dei più giovani martiri cristiani, un bambino ucciso in tenera età, insieme alla madre, il 15 luglio del 304 (o 305). Una versione della morte del piccolo e della madre narra che furono entrambi arsi vivi, ma le fiamme non alterarono i loro corpi, che furono ritrovati miracolosamente intatti: una storia che conferma il misterioso legame di questi luoghi con il fuoco, il flagello dal quale scampano solo coloro che conservano una fede autentica. Ma il mistero non finisce qui: anche se si potrebbe pensare il contrario, la figura di San Ceres non coincide con quella di San Quirico: si tratta, infatti, di un santo eremita, di cui non sappiamo quasi nulla, se non che viene legato, dalla tradizione popolare, alla leggenda dei sette santi eremiti che si sparsero sulle montagne della bassa Valtellina partendo da una matrice comune (di ciò vi è un'eco nella leggenda dei Sette Fratelli, legata all'oratorio alpestre sul versante alto dei monti sopra Traone e Mello). Vale la pena di leggere anche quanto scrive, in proposito, don Domenico Songini, nel bel volume “Storie di Traona – Terra Buona – II” (Sondrio, 2004): “Scermendone, toponimo inesplorato fino alle indagini di don Ezio Presazzi - prevosto di Baglio - che asserisce derivato dai primitivi pastori di Cermenate, che già nel 1308 caricavano l'alpe con l'impegno di consegnare il latte d'una giornata (una cagliata) alla parrocchia di san Fedele.
Scermendone rappresenta la tipica altura, a dossi e a pianori, a 2000 rn. sulla dorsale tra la Valtellina e la Valmasino, di proprietà della comunità di Buglio, che v'invia il bestiame per l'alpeggio estivo e che vi si dà convegno per una sagra popolare di gran prestigio: nel solito mese di luglio, dopo la metà, tempo delle feste dei nostri SS. Sette Fratelli.
Misteriosa, infine, anche l’origine del nome dall’amplissimo alpeggio sul quale veglia la chiesetta. Diverse le ipotesi in merito: forse è da ricercarsi in un nome personale o soprannome, cui è premesso "Scer" da "ser" o "scior", cioè "signore". Alcuni ipotizzano, invece, una derivazione etrusca da "cer", "cerro", o dal germanico "schirm", che significa ricovero per il bestiame. Non è da escludere, poi, la voce del dialetto bergamasco "scérem", che significa soccida, un particolare contratto fra il proprietario di alpeggi ed un prestatore d'opera che vi conduceva anche alcuni capi di bestiame propri. Don Ezio Presazzi, già parroco di Buglio, sostiene, invece, che il nome derivi da Cermenate: da qui, infatti, già fin dal 1308, provenivano i pastori che caricavano l'alpe, con l'impegno di consegnare il latte di una giornata alla parrocchia di S. Fedele di Buglio. Anche oggi l’alpe è caricata, anche se non si raggiunge più il considerevole numero dei 200 capi che venivano censiti fino a qualche decennio fa.
A poca distanza dalla chiesetta vediamo la solitaria baita riadattata a bivacco dall'ANA di Buglio (bivacco o rifugio Scermendone), presso la quale possiamo sostare: siamo in cammino da circa due ore e mezza ed una pausa non guasta di certo. È, questo, un importante crocevia escursionistico: da qui possiamo, infatti, proseguire salendo lungo il crinale fino all’arrotondata cima di Vignone (m. 2608), oppure, prendendo a destra, seguire le indicazioni (paletti con segnavia bianco-rossi) del Sentiero Italia, che scende all’alpe Vignone e di qui a Prato Maslino. È anche possibile scendere, sul versante opposto, a Scermendone basso e di qui traversare facilmente alla piana di Preda Rossa.
Non seguiremo, però, nessuna di queste possibilità. La seconda parte del doppio anello ci fa percorrere, infatti, una quarta direttrice, entrando nella misteriosa (chiamata anche Valle di Scermendone: così, per esempio, nella carta della Val Masino curata dal conte Lurani, nel 1881-1882), che confluisce, da nord-est, nella Valle di Sasso Bisòlo, la più orientale delle valli che costituiscono la Val Masino. Torniamo, dunque, alla chiesetta e prendiamo a destra, portandoci sul versante che si affaccia alla Val Masino: troveremo facilmente la partenza della pista che si addentra in Val Terzana (attenzione a non imboccare quella che se ne stacca sulla sinistra e scende all’alpeggio di Scermendone basso), tagliandone il fianco meridionale, fino all’alpe Piano di Spini (o della Spina, m. 2198: il nome rimanda al casato degli Spini e deriva da “spino”, cioè rovo). Se guardiamo da qui il versante opposto della valle potremo scorgere la fascia rocciosa dove si narra che San Ceres abbia condotto, in una grotta, la sua vita di eremita.
Alle spalle della baita di sinistra dell’alpe comincia un sentiero (segnavia rosso-bianco-rossi), che sale per un tratto verso sinistra, sormonta un dosso e prosegue verso nord-est, rpopnendo uno strappo severo che precede ad un breve corridoio nella roccia, oltre il quale ci ritroviamo qualche metro sopra il laghetto di Scermendone (m. 2339). Si tratta di uno specchio d’acqua non ampio, ma pur sempre considerevole, sia per la sua bellezza, sia per il fatto che, insieme ai laghetti della valle di Spluga e ad uno specchio ancor più modesto al centro della val Cameraccio è ciò che resta di una presenza di laghi alpini che, in Val Masino, dovette essere, in tempi remoti, ben più consistente.
Anche noi, per questa volta, dobbiamo voltargli le spalle, perché è tempo di iniziare a percorrere la seconda parte dell’anello, sulla via del ritorno. Per un breve tratto sfruttiamo il medesimo sentiero che ci ha condotti sin qui, e ci riportiamo all’alpe Piano di Spini. Qui cerchiamo, sulla sinistra, il sentierino che affronta il versante meridionale della valle, salendo dapprima verso sinistra e superando da destra a sinistra un piccolo corso d’acqua, piegando, poi, leggermente a destra (direzione sud). Per facili balze, tenendo, più o meno, il centro o il lato destro di un ampio canalone che sale dolcemente, raggiungiamo, così, senza difficoltà (a parte qualche noiosa chiazza di neve marcia che nella prima parte del mese possiamo ancora trovare, data l’esposizione nord del versante) l’ampia sella erbosa, ad est della cima quotata 2395 metri, che ci consente di riaffacciarci sul versante retico della media Valtellina, ad una quota di circa 2380 metri.
C’è qualcosa di mistico in questi luoghi, di unico. La vicina Croce dell’Olmo (Crus de l'Om) corona questa sensazione. La raggiungiamo in pochi minuti, scendendo per un breve tratto verso sinistra. È posta, a 2342 metri, a pochi metri dal grande ometto che abbiamo scorto dalla sella, su uno speroncino di roccette nel punto culminante dell’ampio Dosso del Termine che, come indica la denominazione stessa (da “tèrmen”, confine), fa da confine fra i comuni di Buglio in Monte e Berbenno di Valtellina. Alla vecchia croce in legno (qualche anno fa ce n’era una ancora più modesta e malridotta, che però, nella sua povertà, con quel braccio orizzontale mestamente reclinato, sembrava perfetta per questo luogo ascetico), si è aggiunta dal 16 luglio 2017, grazie al Gruppo Alpini di Buglio, in collaborazione con la Pro Loro e l'Amministrazione comunale, una nuova spendida croce, che di notte si illumina con effetto di potente suggestione (un pannello fotovoltaico assicura l'alimentazione). La nuova e la vecchia Crus de l'Om Nel suo nome nasconde un mistero: il riferimento diretto all’albero, data la quota, è da escludersi; c’entra, forse, un riferimento indiretto, in quanto l’olmo era rappresentato nello stemma della famiglia degli Olmo, che venne dalla bergamasca in Valtellina nei secoli scorsi, ed alla quale si riconduce anche il paesino di Olmo, in Valchiavenna. E', però, molto più plausibile spiegare il nome come deformazione di "om": si tratterebbe della croce presso un "om", un grande ometto. Ultimo mistero: una croce venne effettivamente posta in questo luogo solo nel secondo dopoguerra (recentemente ne è stata piantata una nuova): prima non c'era (o forse vi fu solo in tempi molto più antichi).
Alla croce riemergiamo dall’abbraccio materno del corridoio che solca il versante ai più ampi spazi. Si riapre, amplissimo, l’orizzonte. Un orizzonte addirittura angosciante, per chi soffrisse di agorafobia. Sul fondo, ad ovest, le valli di Spluga, della Merdarola, Ligoncio e dell’Oro; poi, più a destra, è di nuovo la costiera Remoluzza-Arcanzo a negarci la visuale della splendida sequenza delle più nome cime del gruppo del Masino. Ai piedi di questo splendido scenario, il lungo serpente dell’alpe Scermendone (rivediamo san Quirico ed il baitone). A nord la cima meridionale dei Corni Bruciati (m. 3114) occhieggia appena alle spalle del crinale erboso che ci separa dalla Val Terzana. A sud, infine, le Orobie si distendono, nella fitta trama di cime che giochiamo volentieri a riconoscere, percorrendole una ad una fino all’inconfondibile corno del monte Legnone, vera colonna d’Ercole che segna il confine della Valtellina, alle soglie di altri monti ed altri mondi.
Ma anche il grande ometto merita
la nostra attenzione. Gli ometti (umèt) hanno sempre rappresentato un interrogativo aperto per gli studiosi delle cose della montagna, che si sono chiesti se si tratti di semplice gioco che utilizza le pietre ricavate dallo spietramento dei terreni, di manufatti con significato funzionale di orientamento rispetto a punti nodali su sentieri o luoghi pericolosi, essenziale in caso di scarsa visibilità e foschia, o, infine, di segni con valenza anche religiosa. Di quest’ultimo avviso è Dario Benetti, che, nell’articolo “I pascoli e gli insediamenti d’alta quota” (in “Sondrio e il suo territorio”, IntesaBci, 2001), scrive: “Nel complesso rapporto vissuto dalla società tradizionale con il proprio territorio alla ricerca di un orientamento e di un ordinamento rientra anche, naturalmente, l’area degli alpeggi. Il profondo senso religioso dei contadini pastori si è espresso in varie modalità lasciando molti segni. Tra questi i più misteriosi e, nel contempo, emblematici, sono sicuramente i cosiddetti umèt… Ancora oggi oggi visitando la zona degli alti pascoli si resta colpiti dalla presenza, in genere sulle creste intervallive o, comunque, in punti ben visibili, di pilastri isolati in pietra a secco di circa un metro e mezzo di altezza… Gli umèt spuntano all’improvviso durante il cammino, come antichi guardiani dello spazio abitato, segnando i confini e i riferimenti tra un alpeggio e l’altro”. Il Benetti si riferisce soprattutto alla zona orobica delle Valli del Bitto, ma il suo discorso calza perfettamente anche per l'alpe Scermendone ed il lungo crinale che da essa sale verso est.
L’ultima parte della discesa completa l’anello: non torneremo, infatti, all’alpe Granda per la medesima via di salita, ma per la più classica direttrice che la congiunge all’alpe Scermendone. Ripassiamo, dunque, dalla chiesetta di San Quirico e scendiamo di nuovo al baitone ed alla sorgente dell’acqua degli occhi; ora, però, invece di piegare a sinistra scendendo verso il limite del denso bosco di abeti, proseguiamo sul largo tracciato, che taglia il fianco meridionale di un dosso, portandoci alla sezione mediana dell’alpe, dove troviamo una baita solitaria davanti alla quale si stende una graziosa pozza. Graziosa, perché quando le sue acque non sono increspate dal vento, imprigionano l’immagine del monte Disgrazia e dei Corni Bruciati. Appena a sud (sinistra) del laghetto troviamo la partenza del tratturo che scende diretto all’alpe Granda, ma per ora lo ignoriamo: non possiamo mancare, infatti, di percorrere per intero l’alpeggio.
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